Cogito ergo sum o sono dunque penso?
Il punto di vista della filosofia

LAURA CAMPANELLO

Socia fondatrice della Scuola Superiore di Pratiche Filosofiche Philo; Presidente della Società di Analisi biografica ad orientamento filosofico Sabof; già consulente etica e filosofica per il reparto SLA della Villa dei Cedri di Merate (LC) 

Pervenuto il 29 agosto 2022. Accettato il 23 novembre 2022.

Riassunto. Se esisto necessariamente penso, o si spera che io lo faccia, soprattutto quando l’esistenza, si confronta e si deve occupare di questioni legate alla salute e alle scelte ad esse connesse. L’alternativa al pensiero esplicito in merito alla propria esistenza è quella di delegare altri, implicitamente o esplicitamente, a farlo per noi. La scelta è prima di tutto, allora, per i cittadini quella tra farsi carico di sé e gettare un pensiero consapevole sulla propria esistenza e scegliere autodeterminandosi (specie alla luce della L. 219/17) o vivere nell’inconsapevolezza e, per i curanti, è quella tra farsi carico della consapevolezza e della libertà dell’altro che interpella quella del curante stesso o di negarne tale opportunità e negarsi tale incontro, per difesa o inconsapevolezza (mancanza di pensiero) personale che questa posizione necessariamente implica.

Parole chiave. Consapevolezza, autodeterminazione, relazione, comunicazione, L. 219/217, death education, filosofia.

Cogito ergo sum or I am therefore I think? The point of view of philosophy.

Summary. If I exist I necessarily think, or hopefully I do, especially when existence has to deal with issues related to health and to choices connected to them. The alternative to thinking explicitly about one’s own existence is to delegate others, implicitly or explicitly, to do it for us. The choice is first of all, therefore, for the citizens that one between taking charge of themselves and casting a conscious thought on their own existence and choosing by self-determination (especially in the light of the law 219/17) or living in unawareness; and, for the doctors, is that between taking charge of the awareness and freedom of the other who challenges that of the practitioner himself or denying this opportunity and denying himself this encounter, for personal defense or unawareness (lack of thought) that this position necessarily implies.

Key words. Consciousness, self-determination, relation, communication, L. 219/217, death education, philosophy.

L’esistenza ci riguarda personalmente e ci interpella: dal momento in cui acquisiamo la capacità di porci domande, di fare delle scelte e di prendere direzioni, siamo posti ogni giorno di fronte alla necessità di dare una forma alla nostra realtà, di acquisire uno stile di vita, di dare un senso all’esistenza e conseguentemente di distribuire pesi e misure tra ciò che conta e ciò che conta meno, tra ciò che è essenziale e ciò che è superfluo, tra ciò che ci anima e ci appassiona e ciò che ci mortifica e ci avvelena. Facendo tutto questo decidiamo, consapevolmente o no, se e come fare i conti con il dolore, la morte, la salute, il destino, la felicità e così la nostra vita scorre inevitabilmente lungo questi binari tracciati.

Alcuni modi di vedere il mondo e di stare nelle situazioni – cioè i binari che percorriamo – li ereditiamo dalla cultura e dall’epoca storica che viviamo, altri li facciamo nostri in virtù della storia famigliare e biografica e altri ancora li scegliamo in autonomia grazie alle ricerche ed alle esperienze che decidiamo di fare per essere autori consapevoli della nostra vita e delle nostre scelte che saranno la traduzione quotidiana di quei valori, di quelle priorità, che abbiamo scelto per la nostra esistenza.

Detto quanto sopra posso altresì affermare che se esisto e opero nel modo, inevitabilmente compio delle scelte, risolvo dilemmi, affronto decisioni e quindi necessariamente penso; o meglio: sarebbe opportuno che fosse così, perché se ci riferiamo all’esistenza e soprattutto alle scelte legate al proprio modo di vivere (e presto o tardi anche al proprio modo di morire) la questione ci riguarda direttamente e totalmente, quindi un pensiero in merito dovrebbe essere necessario e imprescindibile o almeno auspicabile.

In realtà, e vale per tutti noi, possiamo permetterci di fare scelte molto inconsapevoli, dettate dalle condizioni in cui ci troviamo, dalla fretta, dalla paura, dal desiderio. Addirittura possiamo evitare di scegliere in maniera chiara e cosciente per tutta la vita, lasciare così che le situazioni scelgano per noi o altri decidano al posto nostro. Possiamo cioè permettere che gli eventi e le correnti emotive personali e collettive decidano le nostre priorità, il nostro stile di vita, le nostre direzioni e le nostre strade, ma dobbiamo avere l’onestà di dirci che anche questa è una scelta: è la scelta di non scegliere e, quindi, implicitamente o esplicitamente, di lasciar decidere altri e altro al nostro posto.

Raramente nel corso della vita ci chiediamo “in che stato versa la nostra anima” – come invitava a fare Socrate – e non intratteniamo spesso dialoghi o pratiche spirituali che ci centrino e ci orientino rispetto al senso della nostra esistenza e alle scelte e alle azioni che ne derivano: lasciamo che gli eventi e l’esistenza ci trascinino, che l’urgenza e lo spiazzamento ci facciano da cieche guide, ci portino verso direzioni in cui ci troviamo poi ad interpretare un copione in cui ci riconosciamo o che accettiamo solo in parte.

Non siamo educati a fare tutto questo, non siamo facilitati in nessun contesto a parlare di limite, di malattia, di morte, di responsabilità, di libertà e possibilità: non fa parte del nostro processo educativo e culturale, purtroppo, anche se sono questioni di cui ogni essere umano dovrebbe occuparsi, “perché ne va della propria vita”.

Raramente ci fermiamo a chiederci che motivazioni ci muovono, che desideri ci animano, cosa dà senso e significato alla nostra vita e cosa la snatura, cosa riteniamo essenziale e cosa superfluo o fuorviante per noi e per ciò che riteniamo sia la forma e la libertà che vogliamo concedere e pretendere dalla nostra vita; e la nostra cultura non invita certo a farlo.

Sembra che prendere l’esistenza sul serio, pensare ad essa, orientarla, nutrirla, assaporarla proprio alla luce della sua finitudine sia affare di pochi, quando in verità la questione riguarda tutti: è un percorso che potremmo definire spirituale, implica cioè tutte le dimensioni dell’umano e impone una visione omnicomprensiva dell’esistenza nelle sue fasi, nella sua complessità e nel suo orientamento di senso.

Questo sguardo dall’alto, questa consapevolezza spesso fuggita ed evitata (perché la consapevolezza porta a vedere la vita per quella che è, nella sua meraviglia e nella sua drammaticità, e non per quella che vorremmo che fosse) arriva invece in maniera prepotente di fronte allo squarcio che la morte di un proprio caro o la malattia propria o altrui impone. Avviene in conseguenza di una tragedia, insomma, di un evento drammatico che svela la vita nuda, nella sua semplicità, nella sua potenza e fragilità. Un evento che scuote e risveglia, spaventa, lascia attoniti e interroga profondamente. È lì, spesso, che la vita viene presa in mano per la prima volta con lucidità e chiarezza: la vita ci chiede conto di come la abbiamo vissuta e noi chiediamo conto a lei del suo procedere, proprio nella presa d’atto che potremmo perderla o già abbiamo perso ciò che davamo per scontato fino ad un momento prima.

Soprattutto quando l’essere umano si confronta e si deve occupare – suo malgrado ma necessariamente – di questioni legate alla salute e alle scelte ad esse connesse, emerge da ciascuno di noi ciò che intendiamo per benessere, guarigione, speranza, dignità, destino, fede, felicità, ecc.

In una parola viene alla luce la nostra biografia, fatta di storie famigliari, educazione, cultura, esperienza, ferite, risorse, tempo storico, possibilità operative che la medicina offre, ecc. e quindi entriamo, speriamo non da soli e male accompagnati, nel campo della libertà individuale che si intreccia necessariamente con quello delle possibilità reali o dei limiti che sono in campo in quella situazione specifica.

Da tutto questo, ovviamente, non siamo certo esenti quando abbiamo il ruolo di curanti: anche e soprattutto vestendo questo ruolo dobbiamo avere chiaro l’intreccio di valori, pregiudizi, timori, competenze, significati, scelte o evitamento di decisioni, che definisce il nostro modo di vivere e intendere l’esistenza e che rischiano di definire in maniera implicita il perimetro in cui ci muoviamo come professionisti, dotati del potere di offrire o meno un processo di cura basato sulla comunicazione, la trasparenza, l’alleanza terapeutica. Il perimetro che definiamo può infatti essere un confine protettivo o la cella di una prigione; tanto più per i curanti, la scelta personale e professionale è quella tra farsi carico della consapevolezza e della libertà propria e altrui o negare tale opportunità, per difesa o inconsapevolezza personale, impedendo l’incontro che questa posizione necessariamente implica.

Senza questa scelta e disponibilità del curante non si rende possibile un rapporto di fiducia reciproca, un’alleanza terapeutica generativa, una responsabilità condivisa del percorso di cura che consenta un processo che porti a scelte sostenibili per tutti gli attori in gioco.

Così come non voler scegliere e non pensare è una scelta che il paziente fa, anche scegliere di non incontrare nel dialogo il paziente è una scelta che il curante può purtroppo attuare: scelta che nega e impedisce un certo percorso di malattia e definisce uno specifico modo di intendere e interpretare il percorso di cura, arrivando ad imprimere una determinata direzione al percorso stesso.

Fuori da un rapporto di cura libero e responsabile si resta tutti inchiodati al tabù della morte, sempre innominabile, da negare tanto più nel corso di una malattia grave, si mettono in atto teatri di silenzio gravosi per tutti e comportamenti di dissimulazione che diventano luoghi di menzogna, di protezione paternalistica, di svuotamento di senso e di negazione di libertà o addirittura di tradimento della buona pratica etica e clinica e delle loro leggi di riferimento.

Allora poniamoci alcune domande le cui risposte diventano cruciali, come individui e tanto più come professionisti del “prendersi cura”:

sono dunque penso oppure proprio perché sono, non voglio e non posso pensare alla possibilità del mio non essere più e quindi non posso occuparmi del processo e delle scelte che mi condurranno alla morte?

E se decido, più o meno consapevolmente, di non volermi occupare di tutto questo perché doloroso e difficile:

sono disposto a delegare altri affinché decidano per me?

Li orienterò nel farlo o mi affiderò al caso di chi incontrerò, in un mondo medico eterogeneo e complesso per sua natura?

E loro saranno in grado di farlo al meglio al posto mio?

Tutto questo come si traduce nella mia professione sanitaria?

Le questioni da porsi come essere pensanti sono molte e complesse e ognuna apre nuove domande alla ricerca della decisione per la scelta migliore.

Ogni decisione, presa con cognizione di causa o evitata in maniera più o meno consapevole, impone e apre conseguenze: il curante non può e non deve esimersi dal farsi interlocutore pensante e consapevole a sua volta per i pazienti e per i caregiver, pena un processo di malattia che aggiunge fatica alla fatica e sofferenza alla sofferenza e anche mancanza di senso e orientamento per tutti gli attori in gioco.

Il dialogo, il pensiero, la consapevolezza, l’uso del tempo a disposizione, la formazione degli operatori sono i presupposti per un percorso di malattia gestito al meglio, per una buona personalizzazione della cura e una buona qualità di vita fino alla fine.

Senza l’uso del pensiero critico, cornice e fonte di tutto questo, il caso e l’emergenza saranno l’unico motore con tutti i rischi e le fatiche che porteranno con sé.

La possibilità che la legge 219/2017 ha aperto con chiarezza nella direzione dell’autodeterminazione poggia sulla rinnovata libertà del soggetto, sulla sua opportunità e sulla confermata responsabilità e disponibilità del curante, ma anche sul bisogno di comunicazione, di relazione e di affidamento necessarie perché la libertà possa essere espressa e tradotta in pratica; la libertà infatti non può avere come prezzo per il malato l’abbandono o la solitudine che lo consegnano all’angoscia. Se è vero – e lo è - che, come recita la suddetta legge, “Il tempo della comunicazione è tempo di cura”, è proprio in quel tempo fondamentale che si intreccia in maniera feconda il pensiero, l’accompagnamento reciproco nelle direzioni che si delineano, la tessitura di una storia che è la storia di cura quale vero e proprio percorso esistenziale.

Una malattia come la SLA (Sclerosi laterale amiotrofica), ad esempio, impone molto più di altre malattie la necessità di affrontare la diagnosi, conoscere la prognosi, compiere scelte dirimenti per la durata della malattia e impone, là dove la scelta non è stata attiva e consapevole, di reggere anche per lunghi anni scelte fatte da altri.

La legge 219/17 permette, ad esempio, di ritirare il consenso dato ad un trattamento in un certo stadio della malattia che risulta invece inaccettabile in fasi di aggravamento successive e questo concede al paziente e agli operatori una libertà e un’autonomia prima inimmaginabili. Proprio grazie a questa libertà e autonomia maggiori, sono ora concessi dialoghi davvero ampi tra curanti e malati che possono esplorare e scandagliare tutti gli scenari possibili nel corso della malattia, dandosi il tempo di scegliere senza mai che il paziente o l’operatore siano soli nel farlo.

E oltre a tutto questo, o forse come cornice che lo precede e lo consente, la legge 219/17 è una legge che richiede e concede di trasformare la cultura intorno alla vita, alla malattia, alla morte e alla cura: invita operatori sanitari e cittadini a costruire e custodire contesti formativi e di dialogo che avvicinino le persone a coltivare capacità di pensiero e argomentazione intorno a ciò che li riguarda, nel corso di tutta la vita e soprattutto durante una malattia o quando si dovessero perdere autonomie decisionali. Consente e richiede di dare avvio a dialoghi grazie a cui poter accedere per sé e con altri, se lo si desidera, a ciò che conta nella vita fino alla fine e anche dopo la morte.

Infatti, spesso la fatica di chi è in lutto si fa ancora più pesante nel dolente perché si è scossi da dubbi e sensi di colpa per non aver chiesto o lasciato dire al morente cosa avrebbe voluto sapere, dove e come avrebbe voluto affrontare il percorso di malattia, come e dove avrebbe voluto congedarsi dalla vita e dai propri cari e dove desiderava sepoltura.

“Avessi saputo”, “avessi chiesto o ascoltato” sono le frasi di chi ha impedito a sé stesso o ad altri un pensiero, un dialogo trasformativo, una scelta consapevole se e dove sarebbe stato auspicabile possibile e addirittura richiesto.

Uno strumento che aiuta ad aprire ad un ampio pensiero condiviso e processuale intorno alla vita, alla cura e alla malattia è quello delle Five Wishes*: riguarda vari ambiti che vengono esplorati in maniera ampia, semplice e dialogica, che tessono passato, presente, futuro, individuo e famiglia coi curanti, desideri e auspici con paure e preoccupazioni, fede e pratiche legate al proprio culto, sepoltura e funerale, ecc.

Creano una narrazione condivisa e continua nell’intreccio complesso e mai lineare che la vita di ciascuno è.

Ingaggiano gli attori in gioco nel processo di cura in una alleanza che inizia da subito ad essere costruita e viene rinnovata affinché il pensiero diventi fonte di esplorazione, relazione, accoglienza, orientamento, sollievo.

Se l’auspicio è che la legge 219/17 possa essere anche e soprattutto uno strumento per percorsi di cura maggiormente condivisi, a sostegno di tutti i soggetti coinvolti, è certo che il lavoro da compiere, restando nell’ambito del pensiero, è anche quello dello scardinamento di una cultura di negazione che ancora vige intorno alla malattia, alla morte e alla consapevolezza del vivere e del morire, perché risulta estremamente difficile decidere per la propria vita, tessere percorsi di cura ed essere operatori capaci di restare in quel terreno in maniera generativa soprattutto se raramente ci si pensa o se ne può parlare nel corso della vita.

Serve un pensiero lungimirante, un progetto educativo e culturale che definisca anche cosa intendiamo per cura e prendersi cura, per vita e per salute, per guarigione e per dignità. Servono processi e contesti di death education che rendano tanto i cittadini quanto gli operatori dell’educazione e della salute sensibili e pronti ad un pensiero sull’esistenza ampio e capace di reggere la complessità affinché possano essere attori responsabili e disponibili per una pianificazione condivisa delle cure e prima ancora per la propria e altrui esistenza da vivere tra limiti e possibilità.

Sono, dunque penso e decido responsabilmente della mia libertà. Perché l’alternativa è sono ma rinuncio alla libertà che deriva dalla consapevolezza, abdico ad essa e ne accetto le conseguenze e spero nel fato, sperando che la mia fiducia sia ben riposta.

Conflitto di interessi: l’autrice dichiara l’assenza di conflitto di interessi.