Le cure palliative al tempo del corona

Ovvero il palliativista in un grande ospedale metropolitano durante l’epidemia di COVID. Dalla narrazione alle considerazioni e proposte

IGNAZIO RENZO CAUSARANO, GIOVANNA MARIA GORNI, BARBARA LISSONI

S.C. Cure Palliative Hospice ASST GOM Niguarda Milano

Pervenuto il 6 aprile 2020. Accettato il 7 aprile 2020.

Riassunto. Questa riflessione racconta un percorso, il percorso che un’équipe di cure palliative (CP) ha intrapreso dal momento in cui il COVID ha fatto il suo ingresso nella nostra quotidianità. Adesso possiamo affermare con certezza che nessuno è nelle retrovie. Tale affermazione non nasce da una asserzione di principio ma da un esame di realtà: la sfida, i cambiamenti di paradigma e dei criteri di scelta in una condizione di emergenza sanitaria impattano su tutte le fasi di cura, per i pazienti COVID ma anche per tutti gli altri nostri pazienti e per noi stessi operatori di CP. Ci siamo ritrovati a dover rapidamente rivedere il nostro approccio alle cure, la riorganizzazione del nostro lavoro, la rivisitazione dei nostri luoghi di lavoro, le domande, spesso drammatiche, sulle scelte di cura, i rapporti con gli altri colleghi di lavoro. Siamo certi che il nostro futuro come operatori di CP non sarà più come prima.

Parole chiave. Cure palliative, pandemia COVID-19, processo decisionale.

Palliative care at corona time.

Summary. This reflection tells the story of a journey, the journey which a palliative care team has started since COVID virus came in our daily life. Now we can affirm with certainty that nobody is in the backwards. The claim is based on our real-life experience facing this condition of health emergency: the model and the selection criteria have evolved day by day, conditioning the treatment of both, Covid and non-Covid patients, and challenging palliative care operators. We needed to change rapidly our treatment approaches, to reorganize our work and our workplace, to answer tragic questions about care choices, to modify the relationships with co-workers. We are sure that our future as palliative care operators will never be the same.

Key words. Palliative care, COVID 19-pandemic, decision-making process.

Inizio

Il 20 di febbraio primi 4 casi di infezione da corona virus accertati in Italia, a Codogno, praticamente alle porte di casa nostra. La notizia viene sparata a tutto schermo sui notiziari della sera. Quello che era un problema lontano, adesso è diventato un nostro problema. È opinione diffusa che non si possa stare tranquilli, perché la comunità cinese qui è molto numerosa e sotto alcuni aspetti enigmatica con la sua cultura così lontana, con le sue medicine e pratiche a noi spesso oscure. Questi i pensieri di molti di noi, allora: alla fine di febbraio

Domenica 23 febbraio decido di andare in Hospice a “tastare il polso” degli operatori in servizio. La mia impressione è che la prima reazione emotiva è l’incredulità: “Ma come è potuto succedere!?”. Seguita dall’arrabbiatura nei confronti di quello che è stato indicato come “l’appestato” e dell’amico untore (poi indicato paziente 1): “Ma come, uno viene dalla Cina e se ne va bello, bello a cena con l’amico che poi va a divertirsi correndo maratone e giocando a calcetto, infettando chissà quanta gente”. Nel frattempo, avevo concordato con Daria (Dirigente infermieristica) e Pasquale (Coordinatore) l’avviso da appendere in Hospice rivolto ai familiari che riportava le prime disposizioni ricevute dalla Direzione Generale. Durante la chiacchierata fatta in infermeria subito dopo sono emerse le preoccupazioni per “noi operatori”: “Ci dobbiamo proteggere, allontaniamo tutti, interroghiamo i familiari da dove vengono, con chi si sono visti, se hanno raffreddore o influenza”, insomma non è il panico ma poco ci manca. Dopo aver rassicurato e illustrato ciò che sino ad allora si sapeva del virus (molto poco a dire il vero), è sorta spontanea la domanda: “Ma il nostro modello di assistenza deve cambiare?”, “Noi che abbiamo sempre sostenuto che le strutture vanno aperte ai familiari e amici, ai bambini, agli animali, ora dobbiamo cambiare?”, “Così diventiamo un reparto come gli altri!”.

Quella sera sparirono letteralmente dal reparto scatole di mascherine e guanti e alcuni camici monouso. I flaconi di gel antisettico per l’igiene delle mani, spariti, neanche fossero pregiate bottiglie di vino. In tutte le televisioni delle stanze di degenza dell’Hospice i programmi erano sintonizzati sui canali di informazione.

Poi veniva istituita la “zona rossa” nel lodigiano e nel padovano.

Poi tutta l’Italia è diventata una zona rossa. Siamo di fronte a una vera e propria epidemia.

L’Ospedale si trasforma

La Direzione Generale ha emesso altre direttive sempre più restrittive, in ottemperanza ai decreti del Governo e alle delibere regionali.

Nel frattempo, l’Ospedale si trasforma, si convertono reparti, si allarga l’area dell’emergenza e dell’isolamento, si studiano percorsi, si bloccano attività d’elezione. Tutti gli operatori si sentono impegnati, si capisce che questa è una cosa nuova, è una cosa grossa.

Si chiudono gli ambulatori.

A questa notizia scatta tra di noi operatori di cure palliative l’agitazione: “Ma noi non possiamo permetterci di chiudere il nostro ambulatorio di cure palliative precoci. Come facciamo!”, “Facciamo di tutto per fissare i controlli nel tempo più ravvicinato possibile e adesso?”, “Ma si rendono conto che i nostri pazienti stanno in media in ambulatorio 30-40 giorni e poi dobbiamo affidarli ad altri setting di cura?!”. Poi arriva la precisazione: si chiudono gli ambulatori che erogano prestazioni differibili. Ci chiedono di specificare la tipologia delle nostre prestazioni e comunichiamo che il nostro ambulatorio e i nostri pazienti non sono differibili. Per cui non si chiude. Sospiro di sollievo si va avanti.

Ma l’Ospedale, il Grande Ospedale Metropolitano, si svuota della moltitudine di persone che ogni giorno vengono, si spostano, si affollano, sorridono o si arrabbiano per l’attesa o per la prescrizione sbagliata dal medico. Tirano sospiri di sollievo o piangono: chi sommessamente chi in modo più evidente. Chi riconoscente stringe mani e chi invece rimane di sasso e volta le spalle e se ne va. Persone che affollano i bar e i negozi delle shopping gallery. Forse, senza volerlo e a modo suo l’Ospedale è un punto di aggregazione sociale. Da lunedì 9 marzo sale d’attesa quasi vuote, poca gente ai bar, a un metro di distanza dal bancone. Niente consumazione in piedi ma solo seduti a distanza l’uno dall’altro.

Poi anche i bar chiudono e in piena mattina si può sentire il rumore dei passi negli atri e nei corridoi.

Cambiano anche gli odori. Nei reparti un miscuglio di antisettici e caffè della moka perché quell’abitudine ancora non si è persa e non è stata vietata.

Quando scatta l’ordinanza di tenere chiuse le porte dei reparti e permettere l’accesso a un solo familiare, in Hospice si discute animosamente: “noi siamo Hospice, per cui diversi”. Ma alla fine si mettono in atto le disposizioni e c’è un gran da fare a spiegare ai familiari i motivi delle restrizioni. Alcuni proprio non le capiscono. Si concorda in équipe di essere un po’ più (ma non più di tanto) elastici quando si apre il percorso di fine vita tipo Liverpool Care Pathway. Dobbiamo spiegare ai familiari che una volta morto non potranno fare il funerale al proprio caro. Lascio immaginare quali emozioni scatena questa comunicazione sia ai parenti ma anche al personale.

Nei reparti dell’Ospedale

Una mattina di queste prime tre settimane “epocali”, Barbara, la nostra psicologa (che per una parte del suo tempo lavoro condividiamo con la Terapia Intensiva Generale – TI, scelta ragionata e frutto di un percorso di pregressa collaborazione con quel reparto) viene nel mio studio con il suo consueto bicchierino di the caldo e zuccheroso e, sedendosi di fronte a me, inizia a raccontarmi di cosa sta succedendo ai colleghi (medici e infermieri) della TI.

L’irrompere dell’emergenza COVID, con le TI chiamate ad affrontare una situazione sino a pochi giorni fa inimmaginabile, ha determinato una trasformazione rapidissima con “una frattura nella continuità temporale che sconvolge non solo i ruoli e le procedure, la capacità di reagire ed i saperi coinvolti” (sue testuali parole). Tale situazione ha determinato un brusco cambiamento della realtà attesa e ha provocato disorientamento, in particolare sul senso e di conseguenza sul loro ruolo di fronte a questa novità minacciosa. Operatori, disorientati e sotto shock, non parlano ma eseguono frenetiche attività, arrivano alla mattina senza sapere la loro destinazione turnistica e cosa accadrà durante la giornata, ma umilmente si affacciano alla drammatica riorganizzazione ancora disorganizzata. Tesi, stanchi emotivamente, da un’aria frenetica, caotica, si percepisce e percepiscono un equilibrio precario. Lavorano senza respirare in dispositivi di protezione individuale che dovrebbero proteggerli da un nemico impalpabile ed invisibile. Abbiamo discusso su quali strategie adottare per gestire lo stress emotivo e supportare l’equipe. Ma con il tempo e il necessario supporto il carico emotivo si abbassa, sovviene l’adattamento si ristabiliscono le giuste distanze un po’ come i porcospini di Schopenhauer1.

Alcuni giorni dopo mi ha parlato della comunicazione del decesso del paziente con COVID: ai familiari che, spesse volte in quarantena, non hanno potuto vedere il loro caro. Al telefono con una dignitosa disperazione di anime urlanti con un corpo lontano e gelido “dott.ssa so che non potrò dargli l’ultimo saluto, né lo potrò più vedere, né potrò fare il funerale, gli può dire che qui a casa stiamo bene, che i nipotini hanno ricevuto il suo regalo, che saremo sempre con lui!”, “Mi mancherà e mancherà per tutto il bene che ha fatto, non si merita di andarsene così, da solo”. La comunicazione telefonica viene aggravata dal fatto che non solo non potranno fare il funerale ma che non potranno vedere la salma neanche dopo il decesso. In pratica la salma rimane isolata anche dopo la morte: “non lo rivedrò più, come morirà, sentirà male, sarà solo, potete chiamare un prete?”. I più anziani ricordano il tempo di guerra quando i mariti, i figli, i fratelli e i padri partivano per il fronte e non si sapeva più nulla di loro.

Le scelte difficili

Sabato 7 marzo escono le “Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili” della SIAARTI che bene si adattano alla situazione attuale. Il Direttore del Dipartimento di Anestesia e Rianimazione chiede la nostra collaborazione, sia nella gestione delle problematiche cliniche del fine vita nel paziente COVID sia per i risvolti etici del processo decisionale di accesso alle cure intensive e della desistenza terapeutica. Viviamo in prima persona la drammaticità della scelta, un’esperienza sino ad allora quasi inesistente e limitata a pochissime situazioni più facilmente gestibili. Adesso non è più così. Nonostante la letteratura scientifica abbia iniziato a produrre documenti, testimonianze, riflessioni e procedure, i dubbi sono tanti e spesso laceranti; molti nostri colleghi rianimatori iniziano ad avere insonnia, disturbi dell’alimentazione, somatizzazioni. Il carico emotivo è alto e non si può lasciare la scelta a una sola persona. Vi è bisogno di condivisione, di coinvolgere altri colleghi e altri operatori di concordare quello che comunemente viene chiamato processo decisionale condiviso. In questo noi ne sappiamo sicuramente di più ed è anche per questo che sempre più il nostro impegno si trasferisce all’interno dell’Ospedale.

Il Team di cure palliative in ospedale

Qualche giorno dopo Giovanna, la collega che svolge l’attività di consulenza in ospedale, mentre beviamo il caffè mattutino, mi racconta della richiesta avuta da una collega delle malattie infettive circa la gestione di una sedazione in un paziente con grave insufficienza respiratoria COVID-correlata e della successiva comunicazione alla famiglia. Giovanna ha raccontato del momento emotivamente molto toccante quando la collega l’ha abbracciata in lacrime ringraziandola per la sua disponibilità. Questo episodio ha immediatamente innescato tutta quella serie di riflessioni che troverete sottoesposte e che sono il frutto delle considerazioni di Giovanna e del confronto quotidiano con me e con Barbara.

L’epidemia si aggrava e il numero di pazienti con COVID aumenta. Nel Grande Ospedale Metropolitano i due terzi dei posti letto sono dedicati ai pazienti COVID. Rimangono una sola Medicina per i pazienti con altre patologie, la Traumatologia, le Neuroscienze, l’Oncologia, l’Ematologia e l’attività dei Trapianti. Medici e infermieri che sino a ieri erano impegnati nelle diverse specialità cliniche vengono convertiti in operatori per COVID. Dove sono finiti gli altri pazienti, quelli che sino a ieri affollavano le diverse corsie? Abbiamo potenziato l’assistenza domiciliare in modo da rendere più disponibili i posti letto in ospedale e la lista di attesa per l’accesso in Hospice si è vistosamente ridotta.

Come detto all’inizio, nessuno è nelle retrovie e quindi anche noi in un momento così critico e carico di implicazioni diverse (cliniche, etiche, relazionali e di forte impatto sulle nostre abitudini sociali) dobbiamo sentirci dentro e fornire le nostre competenze e nello stesso tempo imparare dai nostri colleghi quelle competenze che andranno ad arricchire quello scambio di saperi e quella collaborazione finalizzata a migliorare il nostro ruolo di agenti che svolgono una relazione di cura e aiuto con i nostri pazienti.

Proposte e considerazioni

Pazienti con infezione da Covid-19

Consulenza su gestione dei sintomi, principalmente rappresentati dalla dispnea, fino alla sedazione palliativa continuativa profonda nei pazienti con dispnea refrattaria e non candidabili a trattamenti intensivi (ceiling of care) o non responsivi al trattamento intensivo (desistenza terapeutica). Una delle competenze forti dello specialista di cure palliative è il rigore nella valutazione del processo decisionale, nella definizione del sintomo refrattario e nelle competenze sulla terapia farmacologica della sedazione palliativa.
Pur vivendo uno stato di emergenza non possono né devono venire meno i principi clinici ed etici che legittimano tale procedura sedativa, nella comune consapevolezza che, solo arginando il rischio di alienarsi e abdicare alla nostra umanità, possiamo superare la crisi.
Nessuna “agevolazione”, massimo rigore nell’attenersi a criteri condivisi, limitando il rischio dell’arbitrio e la responsabilità del singolo operatore.
Nessun passo indietro nel gestire il fine vita in modo appropriato, che comporta non soltanto la competenza tecnica nella rimodulazione dei trattamenti ma anche garantire la prossimità dei familiari al morente (con modi e tempi certamente ben diversi dall’ordinario).

Supporto ai colleghi, condivisione della fatica delle scelte, considerando il minimo tempo a disposizione e spazio di decantazione.

Implementazione di modelli di condivisione delle scelte in équipe multiprofessionale e multidisciplinare.

Cure Palliative nel paziente non Covid-19

Manteniamoci aderenti al concetto di appropriatezza e proporzionalità delle cure.
È innegabile una ripercussione dell’emergenza sanitaria sulla gestione dei pazienti “ordinari”. Il fatto di essere in una condizione di emergenza potrebbe da un lato riportare al criterio di appropriatezza delle cure interventi oggettivamente futili e motivati dai criteri della medicina difensiva, dall’altro non va banalizzato il rischio di prendere “scorciatoie” e negare l’incertezza e la complessità.

Giustizia distributiva e di appropriata allocazione delle risorse sanitarie limitate.
Non possiamo escludere la possibilità che questi criteri di appropriatezza e più proporzionalità delle cure non siano sufficienti e che divenga necessario introdurre il criterio di giustizia distributiva e di appropriata allocazione di risorse sanitarie limitate, come già avviene nell’ambito della medicina delle catastrofi2.
In questo senso diventa cruciale il tema che non si tratterebbe di “non fare più nulla” ma di “fare altro”, che rappresenta l’elemento costitutivo dell’approccio palliativo alle cure.
Nessuno nega la responsabilità e la fatica della scelta, esplicitare, argomentare e condividere in équipe le decisioni “difficili” potrebbe essere uno strumento importante nella prevenzione del moral distress.

La Rete di cure palliative ha una responsabilità forte nel garantire la deospedalizzazione dei pazienti che hanno i criteri per rientrare a domicilio o essere presi in carico in degenza hospice. Siamo tutti consapevoli del limite di ricettività dei letti di degenza hospice, ma ciascun servizio di cure palliative può cercare le sinergie più efficaci e l’ottimizzazione delle risorse per fare uno sforzo congiunto di aumentare il numero di pazienti presi in carico.

Inoltre, anche pazienti che in tempi ordinari farebbero il percorso di fine vita in Ospedale, laddove possibile e non gravoso per il paziente, sono trasferiti in hospice anche se per poche ore. In questo senso e in questo frangente i criteri di appropriatezza di ricovero vanno rivisitati.

Conclusioni

Ora più che mai siamo parte di questo sistema: la crisi attuale cambia i paradigmi in senso biunivoco.

La morte e il morire, come tanti altri aspetti della vita quotidiana personale e professionale, hanno una prospettiva differente in questo momento di crisi. Pensiamo a come viene messo in discussione il senso delle risorse che dedichiamo alla cura e al fine vita di pochi di fronte all’emergenza sanitaria di tanti, a come cambia l’obiettivo di favorire la vicinanza di tutta la rete familiare (anche in hospice ci sono limitazioni di accesso), a come dobbiamo imparare ad essere più flessibili e “creativi” nell’integrarci a supporto di percorsi di trattamenti “curativi”. Dobbiamo inoltre sperimentare strumenti di comunicazione efficaci che limitano di necessità i contatti (ad esempio il colloquio telefonico con i familiari la cui presenza è fortemente limitata quando non vietata), cercando di rimanere empatici e supportivi pur “a distanza”.

Siamo convinti che le cure palliative abbiano raggiunto un livello di maturità tale da permettere loro di modularsi nei diversi contesti epidemiologici e di cura senza abdicare ai propri principi e alla propria filosofia di cura.

Conflitto di interessi: gli autori dichiarano l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

1. Casula CC. I porcospini di Shopenhauer. Come progettare e condurre un gruppo di formazione di adulti. Milano: FrancoAngeli, 2016.

2. SIAARTI – Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione In condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili. www.sicp.it/documenti/altri/2020/03/siaarti-raccomandazioni-di-etica-clinica-per-lammissione-a-trattamenti-intensivi-e-per-la-loro-sospensione/