Pillole e parole

SANDRO SPINSANTI

Istituto Giano per le Medical Humanites, Roma.

Pervenuto il 15 giugno 2019.

Riassunto. Dalle erbe ai farmaci di ultima generazione: è il percorso che ha fatto, nei secoli, l’arsenale terapeutico dei curanti. Ma non meno importante è l’altra metà dello strumentario, ossia la parola. La medicina narrativa è particolarmente attenta a questa parte del potenziale di cura. Oltre alle parole che si dicono, un’attenzione privilegiata andrebbe posta sulle parole difficili, che tendono a essere omesse nel contesto della relazione terapeutica. Questa riflessione ne sottolinea cinque: “basta” (particolarmente importante nell’ambito delle cure palliative), “non so” (che sottolinea l’incertezza delle decisioni cliniche), “ho sbagliato” (come strategia di gestione degli errori), “chissà” (nell’ambito della medicina predittiva) e “non ti capisco” (che evidenzia il difficile rapporto con gli “stranieri morali”).

Parole chiave. Medicina narrativa, rapporto medico-paziente, decisione condivisa, conversazione di fine vita.

Pills and words.

Summary. From the herbs to the latest generation drugs: this is the path that the curators’ therapeutic arsenal has made over the centuries. But no less important is the other half of the instruments, namely the word. Narrative medicine is particularly attentive to this part of the healing potential. In addition to the words that are said, privileged attention should be placed on difficult words, which tend to be omitted in the context of the therapeutic relationship. This reflection underlines five words: “that’s enough” (particularly important in the field of palliative care), “I don’t know” (which underlines the uncertainty of clinical decisions), “I was wrong” (as strategy of error’s management), “who knows “(In the field of predictive medicine) and” I don’t understand you “(which highlights the difficult relationship with” moral strangers”).

Key words. Narrative medicine, physician-patient relation, shared decision making, end-of-life conversations.

I nostri antenati nell’arte della cura avevano le idee chiare. Una la troviamo immortalata nel Museo di storia della medicina di Padova (MUSME), che riporta la sentenza: Herbis non verbis medicamina fiunt, ovvero: “Ciò che cura sono le erbe, non le parole”. Le erbe - i “semplici”, come già le chiamava Galeno – erano quelle dell’orto botanico creato a questo scopo. Inaugurato nel 1545, è l’orto botanico universitario più antico del mondo. L’antenato dell’industria del farmaco dei nostri giorni. Se volessimo aggiornare la loro sentenza, potremmo dire: “Pillole, non parole”.

Di tutt’altra opinione gli studiosi convocati dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) nel 2014 per una conferenza di consenso sulla medicina narrativa e sul suo possibile utilizzo nella pratica clinica1. Alla richiesta di una definizione, l’hanno identificata come lo strumento per “personalizzare” le cure; il suo scopo è “acquisire, comprendere e integrare i diversi punti di vista di quanti intervengono nella malattia e nel processo di cura”. Un obiettivo che si può conseguire solo utilizzando le parole. E utilizzandole bene. Non che le parole rendano superflue le pillole, ovvero l’apparato di conoscenze e di pratiche fornito dalla scienza: le due facce della medicina sono ugualmente necessarie. Si integrano e si completano.

Utilizzare bene le parole, dunque. Abbiamo metodi e criteri per valutare gli aspetti biologico-scientifici della medicina. Ci guardiamo bene dall’ingoiare qualsiasi pillola che ci venga offerta: richiediamo prove di efficacia. Qualcosa di analogo dobbiamo mettere in campo per quanto riguarda le parole. Anche la medicina narrativa ha bisogno di rigore. Non possiamo dare ospitalità, sotto questa etichetta, a qualsiasi pratica colloquiale: quasi che la narrazione equivalga a una spolverata di zucchero a velo che si stende sopra la torta. La narrazione è invece parte integrante della torta stessa, ovvero del modo in cui si indaga diagnosticamente la malattia, si individua il percorso terapeutico, si perviene a una decisione condivisa. Per questo il documento dell’ISS non esita a definire la narrazione una “specifica competenza comunicativa”, che ogni clinico dovrebbe possedere.

L’incompetenza comunicativa che più spesso si rimprovera ai medici è quella di ricorrere a un linguaggio che fa scendere la conoscenza da un altro pianeta: quello della scienza, dove si presume che il professionista sia di casa. In termini colloquiali, l’oggetto della critica è il “medichese”. Ai medici si è spesso rimproverato il “medichese”, ovvero quel linguaggio incomprensibile nel quale tendono ad avvolgersi come nel camice bianco. Minore attenzione è stata rivolta invece alle parole che hanno difficoltà a pronunciare. Parole difficili, per le dinamiche che scatenano nei rapporti con i pazienti e i loro familiari. Ne hanno paura e le evitano. Eppure, attraverso queste parole, che richiedono coraggio nel pronunciarle, passa il cambiamento di cui abbiamo bisogno nell’arte della cura. Proviamo a passare in rassegna cinque di queste parole difficili.

Al primo posto mettiamo quella che è senz’altro la più ardua da pronunciare: “basta”. Riassume il senso del limite che devono avere le cure mediche. Perché la cosa più insensata è proprio l’aggrapparsi a interventi curativi, anche quando non hanno più senso e aggiungono sofferenza a sofferenza. Morire con l’ago dell’ennesimo ciclo di chemioterapia in vena o dopo una lunga sopravvivenza in stato vegetativo sono evenienze fin troppo frequenti. La legge 219 del 2017 sulle cure di fine vita dissuade da “ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili e sproporzionati”. Nella pratica quotidiana, invece, il poter dire “si è fatto tutto il possibile” esclude il senso del limite e fornisce un alibi consolatorio tanto ai curanti quanto ai familiari. Anche quando quel “tutto” è troppo. Il timore è che quel “basta” sia vissuto come un abbandono e l’accento sulle cure palliative come un “non c’è più niente da fare”, quando invece c’è tanto da fare nella gestione dei sintomi e per promuovere la qualità della vita che rimane.

La seconda parola difficile è “non so”. Come afferma il chirurgo saggista Atul Gawande, “il problema principale della medicina – quello che rende la posizione del paziente così dolorosa, quella del medico così difficile, e far parte di una società che paga i conti così frustrante – è l’incertezza. La condizione normale della medicina è l’incertezza. E la saggezza – sia da parte dei medici, sia da parte dei pazienti – sta nel modo di affrontarla” 2. Nascondere l’incertezza, tanto della scienza quanto del curante singolo, invece di condividerla con la persona in cura, è invece una pratica corrente. Magari dietro il travestimento più trasparente: l’arroganza presuntuosa.

È soprattutto corrente nascondere l’errore. Siamo alla terza parola difficile: “ho sbagliato”. Un luogo comune popolare molto ripetuto è che gli errori dei medici li copre la terra. In modo più raffinato Bernardino Ramazzini nel suo storico libro sulle malattie dei lavoratori nel capitolo dedicato alle malattie dei becchini affermava che è giusto preoccuparsi della loro salute perché sotterrano i corpi dei morti insieme agli errori dei medici: “È giusto che la medicina contraccambi, per quanto può, l’opera svolta dai becchini nel salvaguardare la reputazione dei medici”. L’ostracismo rivolto all’errore è il modo più miope per gestirlo. Non solo perché alimenta il sospetto e allontana sempre di più le persone che ricevono le cure dai professionisti che le curano, ma perché solo una gestione trasparente degli errori, dei quasi-errori e degli effetti indesiderati tutela la salute dei pazienti futuri. Il fine di una diversa strategia nella gestione degli errori, che inizia con il riconoscerli, non è di mettere sotto accusa chi sbaglia. Non si tratta di impedire ai cattivi medici di danneggiare i pazienti, ma piuttosto di impedire che succeda ai medici bravi. Solo la trasparenza permette di evidenziare i problemi di sistema o le procedure che hanno reso possibile l’errore, prevenendo eventi analoghi.

Un ambito assolutamente scivoloso per le nostre parole è quello della medicina predittiva. “Chissà” è qui la parola difficile: quella che permetterebbe di condividere con il malato l’incerto esito delle cure e soprattutto i futuri sviluppi di salute o malattia. La possibilità di ottenere informazioni sul destino degli individui, sulla base della loro dotazione genetica, è considerata dall’opinione pubblica come uno degli sviluppi più promettenti della medicina. Da questa ci si aspetta che risponda alla bulimia conoscitiva della nostra società. La risposta appropriata a questa tendenza incontrollata ad avere tutte le informazioni possibili potrebbe essere la proposta di un certo ascetismo conoscitivo. Introdurre il “chissà” nella conversazione clinica sarebbe un indice di saggezza. Mentre in internet un mercato senza scrupoli offre indagini genetiche a buon prezzo, millantando palle di vetro in cui leggere il futuro di salute e malattia, nel contesto della relazione seria tra professionisti e persone in cura sarà necessario porre attenzione all’impatto che tali informazioni possono avere. Più che in altre situazioni può essere appropriata una “spinta gentile”, che renda facile accedere alle informazioni utili e protegga da quelle futili e controproducenti.

Riserviamo l’ultimo posto, ma non in ordine di importanza, alla parola che sintetizza la distanza di posizioni inconciliabili: “non ti capisco”. Oggi dobbiamo parlare al plurale anche per quanto riguarda l’etica in medicina. Più grave del pluralismo morale, è l’estraneità morale. È diventato corrente, adottando la proposta del bioeticista Tristam Engelhardt, parlare di “stranieri morali”. La condizione di insanabile estraneità si verifica anche nella pratica della medicina e delle scienze biologiche. Anche tra persone appartenenti alla stessa cultura si può sviluppare una diversità di posizioni etiche e/o metafisiche che induce a proclamare “non ti capisco”. Basti pensare alla difficoltà di convincere, con argomenti di natura scientifica, chi ha fatto propria una posizione preconcetta ostile alle vaccinazioni.

Un conto è però se in un rapporto clinico queste parole sono pronunciate come espressione di un’insanabile rottura (nel senso: “non condivido le tue opinioni e le tue decisioni; alzo la barriera della mia coscienza e ti abbandono perché non ci possiamo intendere”); diverso invece è fare dell’estraneità morale il punto di partenza di un percorso di condivisione, malgrado l’estraneità stessa. È la strada della tolleranza, in senso positivo. E anche del compromesso: sempre in senso positivo. Sullo sfondo vediamo profilarsi un ideale di convivenza pacifica, che rinuncia alla repressione, a meno che questa non sia giustificata come risposta a un atto di forza ingiusto; e tollera le scelte dei singoli, anche quelle che non si comprendono e non si condividono. È lo scenario in cui anche il verbo curare è declinato al plurale.

Sono consapevoli i medici che la loro resistenza a usare queste parole nel rapporto con i pazienti nasce dal timore di dover abbandonare il modello di medicina che stanno praticando e che in generale viene qualificato come paternalistico? Proprio quella medicina che ci crea tanti problemi e che avremmo tutto l’interesse di cercare di modificare.

Conflitto di interesse: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

Bigliografia

1. Linee di indirizzo per l’utilizzo della Medicina Narrativa in ambito clinico-assistenziale, per le malattie rare e cronico-degenerative. Il Sole 24 Ore Sanità, febbraio 2015.

2. Gawande A. Salvo complicazioni. Roma: Fusi Orari, 2005.