È di scena la commissione per il suicidio assistito

SANDRO SPINSANTI

Direttore Istituto Giano per le Medical Humanities

Prevenuto il 20 giugno 2025. Accettato il 23 giugno 2025

Riassunto. La riflessione analizza la proposta, formulata a livello politico, di istituire un organismo, a livello nazionale, con il compito di valutare l’appropriatezza delle richieste di suicidio medicalmente assistito. La proposta è considerata inadeguata, a causa della svalutazione implicita della professionalità del curante e per la deformazione dell’etica clinica in senso burocratico-amministrativo. La riflessione si conclude con l’esortazione ad appoggiare l’elaborazione delle norme destinate a regolamentare l’aiuto medico a morire sulla competenza dei clinici, in particolare dei professionisti impegnati nelle cure palliative.

Parole chiave. Fine vita, normativa, suicidio medicalmente assistito, competenze, cure palliative.

The assisted suicide commission is on stage

Summary. The reflection analyses the proposal, formulated at a political level, to establish a committee, at a national level, with the task of evaluating the appropriateness of requests for medically assisted suicide. This proposal is considered inadequate, due to the implicit devaluation of the professionalism of the health care professionals and the deformation of clinical ethics in a bureaucratic-administrative sense. The reflection concludes with the exhortation to support the drafting of the rules intended to regulate medical aid in dying on the competence of clinicians, in particular of professionals involved in palliative care.

Key words. Life end, legislation, medically assisted suicide, competences, palliative care.

Stando alle recenti notizie di stampa (giugno 2025), pare che nei piani alti della politica si stia lavorando di buzzo buono per trovare una regolamentazione giuridica per il fine vita, come già fortemente sollecitato dalla Corte costituzionale. Tra le proposte relative alla questione spinosissima del suicidio medicalmente assistito è trapelata quella di costituire “un organismo valido per tutto il territorio nazionale”, i cui componenti saranno scelti attraverso un decreto del Presidente del Consiglio, che avrebbe il compito di decidere chi ha il diritto di accedere a questa modalità di porre fine alla vita e chi invece no.

Sorge qualche interrogativo, a cominciare dal nome. Come chiameremo questo organismo? Comitato? Beh, qui incappiamo in qualche resistenza. Non è che i comitati nell’opinione pubblica godano di ottima reputazione. C’è chi sostiene che il cammello sia un cavallo disegnato da un comitato… E soprattutto pesa il macigno dell’inefficienza, espresso dal detto: “Se vuoi che una cosa sia fatta, falla; se vuoi che non sia fatta, affidala a un comitato”. E poi: da quando la bioetica è entrata nella cultura sanitaria del nostro tempo, si è sentita la necessità di creare un comitato apposito: il Comitato nazionale per la bioetica. Come si rapporterebbe la nuova struttura con l’esistente comitato? Un doppione? Una sua agenzia operativa?

Vogliamo immaginare che i politici impegnati a risolvere la quadra del fine vita siano a conoscenza dell’esistenza di due tipi di comitati etici in ambito sanitario: quelli destinati a vagliare la ricerca medica e la sperimentazione e quelli rivolti a sovrintendere alla pratica clinica. I primi sono stati istituiti per legge e sono distribuiti per tutto il territorio nazionale; gli altri sono in pratica facoltativi e solo poche regioni li hanno istituiti. Sia agli uni come agli altri ci si riferisce chiamandoli abitualmente “comitati etici”. La dizione inglese “ethics committee” ha subito in italiano una piccola torsione: l’etica da sostantivo è diventato aggettivo. Il comitato ne ha guadagnato, perché si è così attribuito la gestione monopolistica dell’etica. Basterebbe chiamarlo “per l’etica”: dovrebbe giustificare la sua qualifica e la sua competenza. Ma se si qualifica come “etico”, per definizione, l’etica la gestisce in proprio. Definisce i comportamenti etici e quelli che non lo sono: “avvinghia e manda”, come il Caronte dantesco. Lo sanno bene i ricercatori che, sottoponendo i loro progetti al comitato apposito, se li vedono approvati o respinti sulla base del criterio dell’etica, che qualifica il comitato.

Tralasciando la questione linguistica – comitato etico o per l’etica – che pure insignificante non è, il grave problema è la reale disponibilità di questi organismi per la gestione del fine vita. La Consulta (Corte costituzionale), volendo coinvolgere i comitati etici nelle decisioni che riguardano la presenza delle quattro ben descritte condizioni che esonererebbero l’aiuto al suicidio dalla qualifica di reato, ha indicato come obbligatorio il passaggio attraverso “il comitato etico localmente pertinente”. Ciò vuol dire, in concreto, che non essendo per lo più disponibili i comitati per la pratica clinica, il riferimento va ai comitati per la ricerca. Non resta che domandarsi, con sgomento, che competenza abbiano per affrontare le complesse questioni che stanno dietro alla richiesta: “fatemi morire”. È come se un esperto di alimentazione, competente nell’individuare i cibi tossici, fosse chiamato a fare ricette di “haute cuisine” (sì, la metafora può essere irritante, ma rende l’idea del salto di qualità!).

Non è tutto. Perché questo ventilato organismo, che dovrebbe sentenziare quali domande sono accettabili e quali no, comporterebbe due clamorose svalutazioni. La prima è quella della persona che chiede di chiudere i conti con la vita, perché le è diventata intollerabile. Far dipendere l’accettazione da una struttura autoritaria – organismo, comitato, commissione, o come la vogliamo chiamare – giustifica un paternalismo opposto a tutte le proposte di autodeterminazione che vengono dalla bioetica. E come se a ogni persona si continuasse a chiedere di fare “il bravo bambino”, in attesa dell’approvazione dai “grandi”. Perché questi sanno qual è il suo bene e sono impegnati a proteggerlo da ogni decisione sbagliata. In questo scenario i cittadini determinati a difendere la propria adultità continuerebbero a preferire il percorso che li porta in Svizzera.

Non meno svalutante sarebbe la procedura nei confronti dei medici e altro personale curante. Non dimentichiamo che stiamo parlando di suicidio “medicalmente” assistito. Ancor meglio sarebbe chiamarlo “aiuto medico a morire”, evitando la parola suicidio, su cui grava una connotazione linguistica e sociale svalutante. Ebbene, anche i medici sarebbero infantilizzati dalle sentenze del fantomatico organismo chiamato a decidere chi può ricevere l’aiuto e chi no. Il discernimento della domanda di concludere la propria vita è un’opera delicata e difficile. Richiede ascolto e non poca abilità nel districare i fili della cura che si sono evidentemente aggrovigliati. Decodificare quella domanda è forse l’atto più alto della cura e richiede particolare dedizione e competenza.

È il caso di tornare all’etimologia positiva della parola “comitato”, parola che deriva dal latino “comitari”, e cioè: far strada insieme, accompagnare. Un buon curante è un professionista dell’accompagnamento. Ciò richiede impegno e vicinanza, domanda coinvolgimento. Non a caso in ambito anglofono si usano due espressioni per qualificare l’etica: “armchair ethics” e “bedside ethics”. La prima è l’etica accademica, dei professori di filosofia, la seconda quella che prende forma al letto del malato. La prima scende dall’alto: dal sapere, quando non dalle certezze ideologiche; la seconda si costruisce dal basso, nel delicato lavoro di tessitura che mette insieme ordito e trama, ovvero le attese di salute (che potrebbero essere, date le particolari condizioni, gravate da una sazietà esistenziale) e le offerte terapeutiche adeguate. Come potrebbe il ventilato organismo a valenza nazionale, a distanza siderale da ciò che vive il malato, sostituire la delicata funzione che ci aspettiamo dal clinico, competente non solo in scienza medica ma anche nella comunicazione?

Sono interrogativi che ci permettiamo di rivolgere ai politici che stanno deliberando quale strada seguire per permettere ai cittadini di modellare sui propri valori la vita intera, compreso il morire. Nascono soprattutto da quei professionisti della cura che sono più coinvolti nella palliazione. Quest’ultima è un’opportunità offerta – di diritto – a tutti i cittadini malati: un’opportunità che purtroppo è lungi dall’essere disponibile per tutti coloro che ne hanno bisogno. Anche se la legge n. 38 riconosce fin dal 2010 il diritto di ricevere le cure palliative, la rete di questi servizi è diversamente organizzata sul territorio nazionale, anche per quanto riguarda la fondamentale terapia del dolore. I professionisti della palliazione inorridiscono quando sentono ventilare che la palliazione obbligatoria sarebbe l’alternativa alla richiesta dell’aiuto medico a morire. Si profila lo spettro dell’“accanimento palliativo”, con una completa distorsione del concetto stesso di cure palliative e della loro pratica.

La proposta di un passaggio obbligatorio attraverso le cure palliative suona ancor più stridente se la collochiamo sullo sfondo di una prassi negligente di ricorso alla palliazione da parte di non pochi clinici. Vale da questo punto di vista la testimonianza di operatori di prima linea che, raccogliendo la richiesta di aiuto medico a morire da alcuni malati, hanno dovuto constatare, con immenso stupore, che non avevano mai beneficiato di cure palliative; anzi, queste non erano mai state loro suggerite dai curanti. Sarebbe caricaturale se la palliazione, dimenticata nel normale decorso clinico, apparisse sotto forma di una procedura imposta per via burocratica.

Come se non bastassero le proposte aberranti, circola anche quella di non far ricadere l’eventuale autorizzazione a fornire un aiuto alla morte richiesta entro l’ambito delle prestazioni garantite dal SSN. Quanto dire: si ricorra al privato. Ovvero: abbia questo aiuto chi se lo può pagare. Oltre alla clamorosa ingiustizia, stridente ai valori che sostengono il nostro servizio sanitario, risalta il vulnus inferto alla pratica stessa, che viene esclusa dall’appartenenza a ciò che ha a che fare con la vita e la salute: il suicidio assistito ricondotto nell’ambito degli interventi di medicina estetica…

La strategia auspicabile è che il disegno delle future, possibili norme che garantiscono il perimetro di legalità di un percorso terapeutico che si spinga fino all’estremo confine di garantire un’assistenza medica a chi non può più non solo vivere, ma neppure sopravvivere, si avvalga della competenza dei professionisti delle cure palliative. Una politica più rispettosa delle grandi competenze professionali nella gestione del percorso di cura, che pur esistono nel nostro mondo sanitario, godrebbe anche di maggiore considerazione presso i cittadini. Ascoltando questi professionisti, le proposte governative eviterebbero clamorosi passi falsi, a cominciare dal ventilato organismo nazionale, atto a vagliare le domande di assistenza medica nel porre termine a sofferenze intollerabili, e dalla collocazione di tali interventi al di fuori dei servizi alla salute che lo Stato è impegnato a offrire ai cittadini.

Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitti di interesse.