Antropologia e assistenza spirituale.
Verso un’umanizzazione delle cure

CARLO PERAZZO

Antropologo e assistente spirituale laico, Massa Carrara e Livorno

Pervenuto il 31 gennaio 2025. Accettato il 5 febbraio 2025

Riassunto. Questo testo nasce dall’intento di portare un contributo alla comprensione e alla promozione della dimensione spirituale in ambito sanitario. Nonostante le cure palliative abbiano evidenziato l’importanza della spiritualità nella cura, e sebbene OMS, EAPC, SICP ne definiscano ambito e strumenti operativi, a chi opera in campo sanitario risulta evidente che si faccia ancora molta fatica a parlare di dimensione spirituale e a non confonderla con quella religiosa. Se è vero che sono stati scritti alcuni importanti testi che intervengono nel merito, qui si cercherà di far emergere il contributo che lo sguardo antropologico può offrire a questa importante sfida. Non si tratterà, quindi, di delineare gli aspetti operativi dell’assistenza spirituale, quanto di osservare il profondo radicamento della spiritualità nella storia umana e comprendere perciò la sua importanza e attualità. Cercheremo di mostrare come l’antropologia possa essere vista come una sorta di archivio di esperienze spirituali, sia nella storia dell’essere umano che nel modo di essere umani. Un doveroso riconoscimento va alle cure palliative che rappresentano oggi una grande occasione per tutto l’ambito sanitario: il loro approccio complesso e multidisciplinare, il concetto di “dolore totale”, il “modello bio-psico-socio-spirituale” e l’attenzione al “prendersi cura” della persona anche al di là della prospettiva di guarigione, fanno sì che esse possano contribuire a quel cambio di prospettiva – un cambio quindi culturale – di cui oggi il mondo sanitario ha estremamente bisogno per rispondere al rischio di “de-umanizzazione delle cure”.

Parole chiave. Assistenza spirituale, spiritualità, antropologia, umanizzazione delle cure, formazione.

Anthropology and spiritual care. Toward a humanization of care

Summary. This paper aims to contribute to a deeper understanding of the spiritual dimension within healthcare. While palliative care has rightfully highlighted the pivotal role of spirituality in healthcare, and despite the efforts of organizations like WHO, EAPC, and SICP to define its scope and operational frameworks, those working in healthcare settings often struggle to discuss spirituality openly, frequently conflating it with religiosity. Although several insightful works have addressed this issue, this paper seeks to explore the contribution that anthropological perspectives can make to this complex challenge. Rather than delineating the practical aspects of spiritual care, we will delve into the profound historical roots of spirituality within the human experience, seeking to illuminate its enduring significance and contemporary relevance. Our aim is to demonstrate how anthropology can be viewed as a vast repository of spiritual experiences, encompassing both the historical trajectory of humankind and the way of being human.
It is essential to acknowledge the transformative potential of palliative care for the entire healthcare landscape. Its comprehensive and multidisciplinary approach, the holistic concept of “total pain”, the integrated “bio-psycho-socio-spiritual” model, and the unwavering focus on “caring for” the person, extending beyond the mere pursuit of healing, all contribute to a paradigm shift – a cultural transformation – that is urgently needed within healthcare today. This shift is crucial to counteract the growing risk of “dehumanization of curing”.

Key words. Spiritual care, spirituality, anthropology, humanization of care, training.

«È una questione di obsolescenza. Mentre buona parte di ciò che le università insegnano oggi è nuovo e aggiornato, i presupposti o le premesse di pensiero su cui si basa tutto il nostro insegnamento sono antiquati e, a mio parere, obsoleti»1.

Introduzione: vedere l’acqua con le lenti dell’antropologia

Una metafora cara all’antropologia sostiene che la cultura sia per noi umani come l’acqua per i pesci: siamo immersi in essa tanto che ci risulta quasi impossibile rendercene conto. A partire da qui, l’esperienza antropologica per “funzionare” ha bisogno di una forma di spaesamento, di cui la convivenza con gruppi umani lontani e sconosciuti rappresenta l’emblema più famoso e ormai inflazionato. Ma lo spaesamento può avvenire anche in senso contrario: come già insegnava Ernesto De Martino, il contatto con gli altri mondi diventa fondamentale per comprendere quei tratti della nostra cultura che diamo per scontati e teniamo – più o meno consapevolmente – in ombra, senza sottoporli a critica, e che sono tuttavia essenziali per capire com’è fatta l’acqua nella quale siamo immersi. Questo vale anche nella dimensione della salute e della malattia, così come in quella della cura.

Partiamo da qui per sostenere che parte della difficoltà nel comprendere il senso della dimensione spirituale nelle cure2 nasca dal fatto che osserviamo la questione senza renderci conto di quanto quest’acqua in cui nuotiamo ne distorca i contorni. Il modo di vedere il mondo, almeno in Occidente, si fonda infatti su una serie di passaggi storici e culturali che hanno stretto le stesse parole “spirituale/spiritualità” in una fitta rete di implicazioni problematiche. Solo per citarne alcune: la distinzione tra “potere spirituale” religioso e “potere secolare” laico, che ha progressivamente separato i due ambiti; le associazioni “spirituale/immateriale” e “corporeo/materiale” e la partizione cartesiana tra le due dimensioni che ha contribuito al grande problema del dualismo psico-fisico; quella forma di riduzionismo epistemologico che, almeno dalla scienza moderna in poi, ha portato a considerare “più reale” ciò che risulta essere materiale e quantificabile, di fatto screditando la dimensione spirituale e “invisibile” dell’esistenza: i significati, i valori e le credenze che strutturano il senso della vita delle persone, e che sfuggono inevitabilmente – e fortunatamente – alla quantificazione.

Questi aspetti, oggi come in passato, lungi dall’essere questioni puramente filosofiche, influenzano l’ambito della cura in modo prepotente: come sottolinea l’antropologo Alessandro Lupo, un approccio “biologizzante”, per quanto potente ed efficace sul piano organico, rischia di produrre

«una concezione semplicistica e mutilata della malattia e della terapia, ridotte a mera evidenza empirica di realtà corporee, trascurando le altre dimensioni del fenomeno – non meno “reali” anche se assai meno facilmente riconducibili a categorie universali e traducibili in modelli quantitativi»3.

È così che l’acqua nella quale nuotiamo, se non osservata attentamente, rischia di privarci di strumenti di cura fondamentali, tanto da porre al centro del dibattito la questione della “de-umanizzazione delle cure”. È necessario rendersi conto che spesso in ambito medico – come in quello educativo – lo sviluppo tecnologico e la specializzazione dei singoli settori sono andati di pari passo con la perdita di un approccio olistico alla persona, che non può essere considerata un insieme di parti con funzioni diverse, bensì un sistema complesso di relazioni in cui la dimensione organica è profondamente connessa a quelle spirituale, psichica, culturale, sociale e persino politica.

Gli invisibili

Che gli aspetti immateriali dell’esistenza abbiano un ruolo determinante nella salute e nel modo di affrontare la malattia e il morire, lo sappiamo almeno da quando Ippocrate sosteneva, già nel V secolo a. C., che fosse più importante sapere che tipo di persona avesse una malattia, piuttosto che conoscere che tipo di malattia avesse una persona. Porre l’attenzione sulla persona, infatti, significa includere nel quadro il peso dell’immateriale: la parola e l’ascolto, il significato e la credenza, i valori e le cosmovisioni, i simboli e tutti quegli “invisibili”4 estremamente potenti che condizionano le nostre vite, siano essi l’inconscio, gli spiriti, gli antenati o le divinità. Una netta inversione di approccio è avvenuta con la nascita della medicina moderna che, accanto a grandi scoperte e capacità di intervento, si è caratterizzata per un forte riduzionismo di prospettiva5. I teatri anatomici e le dissezioni dei cadaveri sono l’emblema di un modello che ha progressivamente incoronato il visibile a discapito dell’invisibile, come ben si evince dalle parole di MFJ Bichat (1771-1802), uno dei padri della biomedicina:

«quand’anche prendeste per vent’anni appunti dalla mattina alla sera al capezzale dei malati sulle affezioni del cuore, dei polmoni, del viscere gastrico, tutto non sarà per voi che confusione nei sintomi che, non collegandosi a nulla, vi offriranno un seguito di fenomeni incoerenti. Aprite qualche cadavere: vedrete tosto scomparire l’oscurità»6.

Se il significato antico della parola “salute” era proprio “intero, non separato”, dalla radice sanscrita sarv-, “integro”, da cui derivano il greco olos e il latino salus, è evidente che la prospettiva moderna sia andata in un’altra direzione. Come sottolinea l’antropologa Stefania Consigliere, nell’ottica moderna «la malattia da identificare e curare avrà come suo punto d’appoggio non già il soggetto umano ammalato, nell’interezza della sua biografia, ma un organo specifico»7.

Se è pur vero che le cure palliative si definiscono come cure integrali e che il pallium era proprio il mantello che avvolgeva la persona nella sua interezza, basta ascoltare i e le pazienti per rendersi conto di quanto molti ambiti sanitari siano ancora immersi in una prospettiva che troppo spesso riduce le persone alle loro patologie. Il grande contributo dato dall’antropologia medica, il successo della medicina narrativa o le ricerche che evidenziano l’efficacia di una relazione empatica tra operatore e paziente riportano però al centro della scena quegli elementi invisibili e non quantificabili dei quali l’essere umano non può fare a meno. La dimensione spirituale ha a che fare anche con tutto questo.

Spiritualità e religione

Uno dei primi nodi da affrontare riguarda la stessa idea di spiritualità. Come sottolineava nel 2010 una task force dell’EAPC, si fa spesso confusione tra spiritualità e religione. Siamo nell’ambito delle definizioni, sempre complesso e relativo al contesto, ma si tratta di un problema condiviso in grande parte dell’Occidente moderno, che osserva la questione con occhi inevitabilmente secolari: dato che le religioni sono le istituzioni che più di altre – e con più potere – si sono occupate della spiritualità, essa è di loro competenza o, ancor peggio, è frutto della loro visione del mondo. Chiaramente si tratta di una prospettiva miope, che riduce la storia della spiritualità a quella delle religioni e ignora, da una parte, tutto ciò che l’umanità ha prodotto sul tema ben prima di esse; dall’altra, tutte le forme di spiritualità laica che tutt’oggi fanno parte dell’esperienza umana.

Definire la spiritualità è complesso e, forse, scorretto: non si tratta di un concetto, ma di quel tipo di esperienze estremamente soggettive che hanno molto a che fare con la domanda, il mistero, il “sentire” e l’ineffabile e poco con le risposte e la razionalità. Possiamo, però, circoscriverne l’ambito, riprendendo il grande lavoro che si sta facendo in cure palliative. L’EAPC parla di spiritualità come «dimensione dinamica della vita umana che concerne il modo in cui le persone (individui e comunità) fanno esperienza, esprimono e/o ricercano significato, scopo e trascendenza; ed il modo in cui entrano in connessione col momento che vivono, col sé, con gli altri, con la natura e con ciò che è portatore di senso e/o sacro»8.

Potremmo quindi individuare tre ambiti principali da associare alla spiritualità: la ricerca di senso; i valori fondamentali che reggono la visione del mondo di una persona; il rapporto col mistero e con ciò che va al di là del definibile e razionalizzabile.

Questi tre aspetti sono pienamente osservabili da una prospettiva antropologica e laica come questioni esistenziali che da sempre riguardano l’essere umano. Essi emergono con particolare forza e con tutto il loro bagaglio di bisogni e domande proprio nella malattia e nel morire, esperienze di soglia in cui gli schemi abituali spesso vengono meno, rendendo perciò l’assistenza spirituale un aspetto fondamentale delle cure palliative.

La ricerca di senso, l’esperienza di una profonda relazione con la realtà nella quale siamo immersi e che inevitabilmente ci supera, l’interrogarsi sull’esistenza e sulla morte non devono essere pensati come “extra” emersi una volta che i bisogni materiali, l’evoluzione cerebrale e le civiltà hanno raggiunto un livello di sviluppo adeguato. Esse sono parte strutturale della nostra storia. Di più: le famose domande esistenziali (chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? Che senso ha la nostra vita?) fanno parte di quel ricchissimo bagaglio che ci ha permesso di divenire ciò che siamo, esattamente come la scoperta del fuoco, il pollice opponibile o la postura eretta. Non a caso i nostri antenati hanno sviluppato un linguaggio simbolico – che oggi teniamo vivo nelle arti, nelle filosofie, nelle religioni – che li aiutasse a esprimere il senso della propria esistenza.

Uno dei più grandi errori della modernità è stato includere nella categoria denigratoria di “superstizioni” - o tuttalpiù di astrazioni – gran parte di ciò che esulasse dal mero dato osservabile e calcolabile, escludendo così parti da sempre essenziali dell’esperienza umana e sviluppando i propri strumenti di analisi e intervento in modo riduttivo.

Come sosteneva Gregory Bateson, contribuendo a rivoluzionare la riflessione epistemologica: «Be’, per esempio non credo che lo scopo originale della danza della pioggia fosse quello di “far mandare” la pioggia. Ho il sospetto che questo sia un fraintendimento degenere di un bisogno religioso molto più profondo: affermare l’appartenenza a quella che possiamo chiamare la tautologia ecologica, le verità eterne della vita e dell’ambiente»9.

Bateson utilizzava allora il termine “religioso” nel senso in cui oggi parliamo di “spiritualità”, svincolato dalle religioni istituzionalizzate. Parte del suo lavoro ha contribuito proprio a collocare la nozione di “sacro” al di là della religione, utilizzandola per esprimere la dimensione relazionale della realtà.

In sintesi, le religioni propongono una specifica declinazione della dimensione spirituale all’interno di cosmologie e comportamenti particolari, ma essa esiste loro malgrado come elemento radicato nell’esperienza umana.

Tracce

Le tracce archeologiche e paleoantropologiche possono aiutarci in questo tentativo di collocare l’esperienza spirituale nell’evoluzione umana. Consideriamo il dibattito attorno alle prime sepolture rituali, segni di una riflessione e di una pratica - di una ricerca di senso - sul rapporto tra il vivere e il morire. Fino ad alcuni anni fa si pensava che le sepolture rituali fossero cominciate con Homo Sapiens, l’unico a sviluppare un’evoluzione cerebrale e una capacità simbolica in grado di giustificare i riti. Le ricerche più recenti, però, sono andate in un’altra direzione: prima si è scoperto che anche Homo Neanderthal praticava tali rituali, anche se in epoche avanzate del suo sviluppo, intorno ai 100.000 anni fa; poi, man mano che gli studi avanzavano, si è arrivati a datare il primo atto funebre rituale (a noi noto) addirittura circa 430.000 anni fa10. E non si tratta di un caso unico: un altro studio fatto in Sud Africa ha allargato la platea dei nostri antenati capaci e bisognosi di riti, sostenendo che anche Homo Naledi, con un cervello grande un terzo del nostro, seppelliva i propri membri già circa 300.000 anni fa11.

Anche le pitture rupestri offrono spunti interessanti: più la ricerca avanza e più antiche sembrano essere le capacità simboliche e narrative dei nostri antenati, con Homo Neanderthal che ha anticipato di diverse migliaia di anni Homo Sapiens in questa forma d’arte12. Inoltre, a dimostrare quanto “l’acqua nella quale nuotiamo” possa distorcere il nostro sguardo, anche la tesi secondo cui le pitture parlassero principalmente di caccia – e di nuovo quindi di aspetti materiali come la sussistenza – comincia a scricchiolare: diversi studi hanno infatti evidenziato che gli animali raffigurati non hanno quasi mai atteggiamenti di fuga e appartengono a specie che non facevano parte della dieta del tempo13. Più che di caccia, forse, si trattava di rappresentare la relazione con gli altri abitanti del mondo. Esiste poi tutto un complesso di grotte che presentano immagini di mani umane, sia in negativo che in positivo, che, senza entrare nello scivoloso mondo delle interpretazioni, possiamo osservare come tracce forti di quanto antica possa essere quella dimensione creativa e interrogativa che è parte integrante di ciò che qui consideriamo spiritualità.

Un’ultima questione: in questi anni, la scoperta del sito archeologico di Göbekli Tepe in Turchia (circa 12.000 anni fa), sta rivoluzionando l’idea che sia stata la fame (e quindi i bisogni materiali) a dar vita alle prime civiltà complesse, agricole e stanziali13; in quest’ottica, le prime forme di spiritualità strutturata con culti specifici sarebbero arrivate successivamente, come conseguenza di società più complesse. Ma dato che Göbekli Tepe precede la stanzialità e l’agricoltura, è molto probabile che diversi gruppi nomadi di cacciatori-raccoglitori abbiano costruito il sito per ritualizzare insieme periodicamente, e che quindi sia stato proprio questo bisogno spirituale a dar vita alle prime forme di stanzialità attorno al sito. Non la fame, quindi, ma la ricerca di senso sarebbe al centro di uno snodo fondamentale della storia umana.

Aperture: spiritualità e antropologia ecologica

Generalmente, almeno in Occidente, le persone si concepiscono – e vengono concepite – come “individui”. Lungi dall’essere un concetto neutro, il termine comporta una serie di implicazioni importanti: “individuo” significa “in-divisibile”, deriva dalla traduzione latina del greco àtomos, quella che si riteneva la particella ultima della realtà. Esso è per definizione chiuso e risolto in se stesso; può avere relazioni ma non è determinato da queste. Oggi possiamo affermare – supportati da antropologia, neuroscienze e biologia – che si tratta di una visione obsoleta e riduzionista che non rispecchia la complessità dell’essere umano di cui la sanità ha il compito di prendersi cura.

Gli studi sui neuroni a specchio, che mostrano la profondità del legame tra “io” e “tu”; la riscrittura dell’origine dell’evoluzione della vita sulla Terra alla luce di meccanismi non darwiniani, come il trasferimento genico orizzontale e l’endosimbiosi, alla luce dei quali – per dirla con la biologa Lynn Margulis - “la vita non conquistò la Terra attraverso la lotta, ma attraverso la cooperazione”; gli studi di epigenetica, che evidenziano quanto la relazione con l’ambiente possa determinare ciò che siamo sono solo alcune delle tracce che invitano a un radicale cambio di prospettiva. Quel che emerge in modo sempre più significativo è la base relazionale dell’esperienza umana, e non solo in termini che di solito consideriamo culturali o psicologici, ma anche in quelli biologici. Siamo esseri ecologici, dati solo ed esclusivamente nella relazione, non tanto individui quanto piuttosto “condividui”14. Ed è proprio l’elemento della “relazionalità” che permette di considerare la dimensione spirituale da una prospettiva laica, come parte del nostro bagaglio umano.

La definizione dell’EAPC associa, infatti, la spiritualità alla relazione, parlando di “connessione col momento, col sé, con gli altri, con la natura e con ciò che è portatore di senso e/o sacro”. Possiamo dunque sostenere che la dimensione spirituale abbia a che fare con il senso che emerge – o si perde – quando un soggetto fa (o non fa) esperienza di questa relazione profonda, sia essa con parti di sé, con gli altri o con qualcosa che viene vissuto come sacro.

Anche la nozione di “sacro”, come quella di “spiritualità”, è troppo spesso associata alla sola religione. In realtà potremmo ammettere che gli esseri umani da sempre riconoscono l’esistenza di - e cercano una relazione con – qualcosa di non del tutto afferrabile che esiste prima e persiste durante e dopo la nostra vita soggettiva. Ed è molto importante riconoscere che l’impossibilità di definire questo “eccedente” non lo rende meno reale. È la stessa filosofia della scienza, nel ‘900, ad aver decostruito l’idea che la scienza possa dare risposte definitive sulla realtà, comprenderla totalmente e raccontarne la verità ultima. In questo quadro il sacro, col suo profondo legame col mistero, acquista anche per noi oggi dignità e peso scientifico.

Uno dei motivi per cui la dimensione del mistero è stata ritenuta incompatibile con la ragione, è messo bene a fuoco dal filosofo, chimico e teologo Raimon Panikkar: «la scienza moderna è epistêmê e non gnôsis: una certa conoscenza particolare di un aspetto della realtà e non una certa consapevolezza della realtà»15. La prima si presenta come conoscenza informativa e controllo di parti del reale, mentre la seconda implica l’esperienza diretta e spesso indicibile (in termini logico-razionali) di aspetti della realtà.

In termini più generali, riemerge la critica che Lupo fa all’approccio biomedico classico con cui abbiamo aperto: la cura include molto di più dell’immediatamente visibile e quantificabile. Perciò, per umanizzare le cure, è necessaria una rivoluzione di prospettiva che tenga conto della spiritualità, del sacro e del mistero.

Limite e spiritualità

Quest’ultima riflessione ci permette di riaprire una questione estremamente importante quando ci si interroga sulla cura: infatti, riconoscere il valore e l’esistenza di un aspetto misterioso ed eccedente della realtà e dell’esperienza umana significa ridare centralità al tema del limite.

Da sempre l’essere umano si relaziona con i limiti. Anche qui, se ci facciamo aiutare dalle tracce materiali più antiche del Paleolitico, vediamo come, da un lato, i primi utensili di pietra scheggiata dimostrino una certa capacità umana di superare, attraverso l’ingegno, i limiti della propria dotazione fisica; dall’altro, come le sepolture funebri evidenzino la necessità di relazionarsi con il limite della morte.

Siamo di fronte alla paradossalità della condizione umana. Come diceva Jung, «solo il paradosso è capace di abbracciare, anche se soltanto approssimativamente, la pienezza della vita»16. Mentre osserviamo il tempo ciclico delle stagioni, facciamo esperienza di quello apparentemente più lineare del nostro corpo; mentre sappiamo di dover morire, non possiamo conoscere fino in fondo la morte; mentre viviamo, non ci basta semplicemente vivere ma ricerchiamo un senso e una direzione nell’esistenza. Il paradosso, nella sua impossibilità di essere risolto, ci insegna a riconoscere non tanto la paura o la sudditanza nei confronti dei limiti, quanto una necessaria relazione e riflessione attorno alla loro realtà.

Oggi viviamo in una società che rinnega i limiti. È una storia profonda: il non riconoscimento dell’Altro e dei limiti geografici - la tragica esperienza coloniale - hanno inaugurato e caratterizzato l’età moderna, così come il non riconoscimento dei limiti ecologici ha fatto sì che oggi regni una produzione tossica che mina le stesse possibilità della vita sulla terra facendoci ammalare17; il non riconoscimento dei limiti soggettivi e fisiologici ha creato l’idea, illusoria e patologica, che si debba e si possa essere competitivi, autonomi, performanti, continuamente in vetrina ed eternamente giovani, con tutto il bagaglio di disagio e di supporti chimici prestazionali necessari per essere all’altezza. Essendo una questione culturale, chiaramente anche l’ambito della salute ne è coinvolto. I dati sugli “eccessi di medicina” (interventi, terapie, farmaci)18 e sugli effetti collaterali annessi sono impressionanti. Le cure palliative, poi, occupandosi della fine della vita e quindi di quella fase in cui sfuma l’idea della guarigione – non quella della cura – toccano con mano l’enorme difficoltà che oggi fa la medicina nel riconoscere i propri limiti e i limiti della vita stessa.

Ma c’è di più, perché una cultura dell’illimitatezza non può che mettere in cattiva luce, o peggio ancora negare, esperienze che inevitabilmente caratterizzano la vita umana, come la vecchiaia, la malattia e la morte, rendendoci meno capaci di affrontarle con consapevolezza19. Nell’epoca del giovanilismo, la vecchiaia viene accettata finché “attiva” e quindi priva di quella dimensione di testimonianza fondamentale del distacco, della lentezza, del “meno”20; questo crea una società, da una parte, piena di anziani che riescono a comportarsi da giovani; dall’altra, di anziani soli e ignorati perché incapaci di essere attivi. La malattia, allo stesso modo, viene accettata solo come esperienza che deve essere guarita, problema che deve essere risolto e guerra da vincere, creando enormi aspettative e altrettante difficoltà quando la prospettiva della guarigione non è più possibile. E infine il morire diventa l’impensabile e l’indicibile, perdendo una delle funzioni più importanti che ha sempre ricoperto, ben rappresentata dal memento mori medievale, ovvero quella di stimolo alla valorizzazione della vita in corso, del tempo presente, prezioso proprio perché destinato a finire.

Concludere riaprendo

Se si discute oggi del bisogno di non disumanizzare le cure, forse è bene fare un ulteriore passo indietro e riflettere su quale concezione di umano prevale nell’ambito medico e nella nostra cultura. Ecco che la prospettiva di un’antropologia ecologica21, che sappia superare l’obsoleta partizione tra natura e cultura, tra visibile e invisibile, capace di dare pari dignità a entrambe le sfere, potrebbe offrire una visione più ampia e complessa di ciò che siamo e rispondere a bisogni altrimenti trascurati. La ricerca di senso, la dimensione relazionale e le questioni esistenziali sono esperienze radicate nella storia umana che da sempre richiedono di essere espresse, accolte e lavorate. L’assistenza spirituale dovrebbe poter rappresentare ed essere riconosciuta come quello spazio in grado di svolgere questo prezioso compito.

Un ulteriore elemento particolarmente rilevante, che meriterebbe un approfondimento a parte, è la possibilità di includere un servizio non clinico all’interno dei percorsi sanitari che si pongono l’obiettivo di una cura integrale della persona. Al di fuori dei preziosissimi volontari che portano il proprio contributo in alcuni reparti, sono poche le figure non cliniche che le persone-pazienti possono incontrare. Ciò significa che sono pochissime le occasioni in cui possa prevalere il “sentirsi persona” rispetto al “sentirsi paziente”. Per quanto il personale sanitario possa sviluppare un approccio umano, quel tipo di relazione è culturalmente connotata in un particolare senso, con tutta una serie di implicazioni che inevitabilmente attivano dinamiche proprie dell’esperienza medico-clinica.

L’assistenza spirituale può essere quell’elemento in grado di dar spazio e valore alla “semplice” umanità della persona-paziente. Come ricorda Frank Ostaseski, «l’assistenza spirituale non comporta di solito discussioni filosofiche o pratiche esoteriche. Non è un modo per fuggire da questa vita, quanto piuttosto per guardarla a viso aperto. È un prendere coscienza delle opportunità presenti qui e ora per offrire amore e compassione»22. Ciò non significa, ovviamente, che le profonde questioni esistenziali siano vere solo sulla carta, bensì che per farle emergere è fondamentale prendersi cura di tutto ciò che sembra apparentemente lontano o superficiale: quello che la persona è, nell’immediatezza della propria vita. È in questa trama che troviamo, incastonati tra gli aspetti più umani, i valori e le prospettive che reggono il senso della sua vita. In quest’ottica includiamo all’interno del percorso di cura anche quelle che a volte, a primo impatto, possono essere viste come semplici conversazioni e racconti su aspetti magari lontani dall’esperienza della malattia in corso. Ma proprio perché gli umani sono sistemi complessi in cui tutto è in relazione con tutto, questi scambi diventano propedeutici all’emersione di profonde questioni esistenziali.

Come sostiene la psicologa Marie De Hennezel, «l’accompagnamento è una faccenda di impegno e di amore. Una faccenda innanzitutto umana. Non ci si può trincerare dietro al camice del professionista [...]. Ci vuole un altro essere umano per condividere questa ultima esperienza relazionale»23.

Non crediamo che questo debba essere un aspetto esclusivo dell’assistente spirituale, ma riconosciamo che l’ambito sanitario ha spesso, purtroppo, troppe poche risorse per far sì che le figure sanitarie abbiano tempo e spazio per occuparsi di questa dimensione. C’è inoltre un problema culturale: il mondo sanitario è chiaramente strutturato sul “fare”, sulla soluzione del problema/sintomo. Ma, come insegnano le cure palliative, l’esperienza di cura non può essere ridotta al piano operativo. C’è un “oltre” in cui esistono problemi che non hanno soluzioni o domande che non hanno risposta. Qui, in questo spazio difficile eppure reale, il “fare” spesso è superfluo, mentre la dimensione dello “stare” può essere di grande aiuto. Umanizzare le cure significa anche includere nei percorsi di accompagnamento nella malattia e nel morire uno spazio per lo “stare con” tutto ciò che da un punto di vista medico-clinico potrebbe non avere soluzione, ma che, tuttavia, da un punto di vista umano, esiste con un suo peso specifico e un profondo bisogno di accoglienza. L’assistenza spirituale ha a che fare anche con tutto questo.

Bibliografia

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2. Si veda Toccafondi A, Miccinesi G. Spiritualità e psicologia. in Libro Italiano di medicina e cure palliative terza edizione. Milano: Poletto Editore, 2019: 574-9; Miccinesi G, Ritossa C. Il core curriculum SICP per l’assistenza spirituale in cure palliative. Riv It Cure Palliative 2019; 21: 2534; Campanello L, Cagna M, Miccinesi G. Spiritualità e cure palliative. Riv It Cure Palliative 2023; 25: 55-63; Bormolini G. Accompagnatori accompagnati. Padova: Edizioni Messaggero di Padova, 2020.

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6. Bichat M. F. J. Anatomie générale appliquée à la physiologie et à la medicine. In Consigliere S. Dispense del corso di Antropologia, a.a. 2024-2025. Università degli Studi di Genova, 2024.

7. Consigliere S. Dispense del corso di Antropologia, a.a. 2024-2025. Università degli Studi di Genova: 2024.

8. Miccinesi G, Ritossa C. Il core curriculum SICP per l’assistenza spirituale in cure palliative. Riv It Cure Palliative 2019; 21: 253-4.

9. Bateson G. Mente e natura. Milano: Adelphi, 1984: 276. Per il sacro in Bateson si veda: Bateson G. Dove gli angeli esitano. Verso un’epistemologia del sacro. Milano: Adelphi, 1989; Cini M. Il sacro in Bateson: né soprannaturale né meccanico in Gregory Bateson. A cura di Deriu M, Milano: Bruno Mondadori, 2000.

13. Xigalatas D. Ritual. Storia dell’umanità tra natura e magia. Milano: Feltrinelli, 2023.

14. Remotti F. Condividuo. Prove di fruibilità antropologica. «L’Uomo», 2021; vol. XI, n. 2.

15. Panikkar R. Le porte strette della conoscenza. Milano: Rizzoli, 2005; 57.

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17. Uno studio di Greenpeace del 2020 registrava circa 4,5 milioni di morti premature all’anno nel mondo a causa dell’inquinamento atmosferico; sul non riconoscimento dell’Altro si veda Todorov T. La conquista dell’America. Torino: Einaudi, 2014.

18. Bobbio M. Troppa medicina. Torino: Einaudi, 2017.

19. Candiani C. I visitatori celesti. Torino: Einaudi, 2024. È interessante notare che vecchiaia, malattia e morte siano il motore della ricerca di Buddha.

20. Zoja L. La pietra e la banana in Incontri con la morte. Milano: Raffaello Cortina, 1984.

21. Perazzo C. In comune. Nessi per un’antropologia ecologica. Roma: Castelvecchi, 2023.

22. Ostaseski F. Saper Accompagnare. Milano: Mondadori, 2006; 47.

23. De Hennezel M. La morte amica. Milano: BUR, 1998.