Lo psicologo e l’équipe di cure palliative

ANDREA BOVERO1, GIORGIA GOLLO2, SILVIA VARANI3

1SSD Psicologia Clinica, Dipartimento di Neuroscienze, Università di Torino, AOU Città della Salute e della Scienza di Torino; 2SSD Cure Palliative ASL 4 Chiavarese, Coordinatore Regionale SICP Liguria; 3Dipartimento Sanitario-Responsabile Nazionale UO Formazione e Aggiornamento Scientifico Fondazione ANT Italia ONLUS.

Pervenuto il 12 ottobre 2023. Accettato il 14 ottobre 2023.

Riassunto. Il ruolo dello psicologo nell’équipe multidisciplinare di cure palliative si declina in diverse tipologie di intervento: da quelle con valenza formativa alla supervisione clinica. Operare nel contesto delle cure palliative pone a confronto con esperienze ad intenso carico emotivo, al confronto con la perdita da un punto di vista non solo professionale ma anche umano ed esistenziale. La compassion fatigue che possiamo descrivere come la fatica dell’operatore a mantenere atteggiamenti di cura e la sindrome del burnout, come condizione di esaurimento psicofisico, sono forme diverse di sofferenza descritte in letteratura che mostrano quali siano i rischi di lavorare a contatto con il dolore. Compito dello psicologo è quello di attuare interventi clinici che aiutino gli operatori a elaborare la sofferenza elicitata dal contatto con pazienti e famigliari, ma anche quello di comprendere ed interpretare i bisogni dell’équipe e l’eventuale malessere per poter progettare e condurre interventi mirati e di supporto.

Parole chiave. Psicologo, équipe di cure palliative, distress.

The psychologist and the palliative care team.

Summary. Role of the psychologist with the multidisciplinary palliative care team comes in different types of intervention: from that of educational value to the clinical supervision. Working in the context of palliative care confronts with experiences with high emotional burden by the interface with the loss, not only from a professional point of view but also existential and human. Compassion fatigue, described as the healthcare provider’s fatigue to maintain care attitudes, and the burnout syndrome, as a condition of psychophysical exhaustion, are different form of suffering described in literature, that show what are the risks in working with pain. Role of the psychologist should be implemented clinical interventions helping healthcare providers to process the suffering caused by the contact with the patients and relatives, but also to understand and to interpret healthcare providers’needs and the possible distress to plan specific support interventions.

Key words. Psychologist, palliative care team, distress.

L’équipe di cure palliative, per sua natura multidisciplinare, prevede la presenza dello psicologo, il cui ruolo è rivolto tanto al paziente e alla famiglia nel difficile percorso di fine vita, quanto all’équipe in termini supportivi e formativi lungo tutta la traiettoria di malattia (legge 38/2010). Con i primi due, le aree di intervento dello psicologo possono attivarsi precocemente, dalle fasi antecedenti la malattia (promozione della salute, DAT, ecc.) a momenti specifici di tale percorso (diagnosi, progressione, fase terminale e lutto); con l’équipe, invece, il compito dello psicologo consiste nel creare e analizzare il clima lavorativo, nella discussione dei casi, nel supporto all’équipe e alle singole persone, nella supervisione psicologica e nel lavoro di rete1.

Operare nel contesto delle cure palliative pone l’operatore costantemente a confronto con esperienze significativamente impattanti e ad intenso carico emotivo, quali una malattia inguaribile, il morire e la morte, coinvolgendolo, quindi, in modo rilevante e a più livelli (umano, spirituale/esistenziale e professionale). Per tale motivo è fondamentale che l’équipe di cure palliative, oltre all’attenzione e alla cura rivolta al paziente e al suo nucleo familiare, abbia cura di sé stessa e dei singoli operatori che la compongono, dando voce alle angosce e alla sofferenza emotiva che inevitabilmente si attivano.

Volgendo uno sguardo alla letteratura internazionale è stato riconosciuto che lavorare a stretto contatto con il dolore e il processo del morire coinvolga gli operatori ancor prima su un piano personale e umano che professionale2. Tale sofferenza, se non riconosciuta e affrontata, può causare una serie di difficoltà che impattano sulla salute dell’operatore e sull’assistenza sanitaria del paziente e della famiglia. Tra queste, vi è una forma di stanchezza emotiva descritta in letteratura come compassion fatigue, ossia la fatica dell’operatore nel mantenere atteggiamenti, comportamenti, scambi relazionali e cure compassionevoli nei confronti dei pazienti. Essa si traduce in sintomi fisici, emotivi e psicologici, associati ad una riduzione della capacità di provare compassione ed empatia verso l’altro3.

Un altro fenomeno che può essere presente in cure palliative è il cosiddetto moral distress, ossia una perdita di senso e un’incertezza morale rispetto al proprio lavoro, che si verificano nei casi in cui si agisce in modo incoerente rispetto ai propri valori o principi4, anch’esso caratterizzato da sintomi psicologici e fisici. Infine, la letteratura individua la sindrome del burnout, in presenza di una condizione di esaurimento psico-fisico5 nella quale l’individuo sente di non avere più adeguate strategie e risorse emotive o cognitive per fronteggiare la situazione, con grandi sofferenze della persona ed esiti deleteri nella pratica lavorativa.

Nel core curriculum dello psicologo in cure palliative6 sono descritti gli strumenti e le competenze utilizzati dallo psicologo per prevenire il distress e mantenere il benessere degli operatori.

Attraverso questi strumenti è possibile mitigare le angosce, il senso di impotenza e la sofferenza di chi si trova quotidianamente ad affrontare il dolore, la morte e il morire.

Tra le possibili tecniche di intervento che possono essere utilizzate come supporto all’équipe, di seguito verranno brevemente approfondite quelle più frequentemente utilizzate nel contesto delle cure palliative.

Supervisione clinica

Con il progressivo consolidarsi delle Reti locali di cure palliative, nel corso dell’ultimo decennio anche la pratica della supervisione clinica è entrata a far parte dell’esperienza di numerose équipe in diverse regioni italiane. A ciò non è seguita un’evoluzione nella conoscenza scientifica di tale metodo che rimane documentato attraverso testimonianze ancora piuttosto rare e limitate ad un livello descrittivo piuttosto che studiate attraverso una sistematica raccolta e analisi dei dati. Questo non impedisce alla supervisione clinica di essere tra i più conosciuti ed utilizzati interventi di supporto alle équipe.

Nel Documento di Consenso “Appropriatezza dei termini psicologici e relazionali in cure palliative” (Workshop Psicologi Congresso Nazionale SICP, 2014)7, la supervisione viene descritta come “l’intervento di uno psicologo esterno al gruppo di lavoro con competenze specifiche in cure palliative e dinamiche di gruppo […] centrato sulle dinamiche dell’équipe con finalità di prevenzione del burnout, miglioramento del clima lavorativo e della qualità del lavoro anche attraverso la discussione e l’analisi delle modalità di gestione dei casi clinici, delle loro implicazioni emotive e dei conflitti relazionali di natura professionale”. Nel mondo anglosassone, le linee guida della Care Quality Commission inglese stabiliscono che lo scopo della supervisione clinica è quello di fornire allo staff un ambiente sicuro e confidenziale per riflettere e discutere sul proprio lavoro in modo da sviluppare strategie personali e professionali efficaci per far fronte alle sfide che esso pone. La discussione si sviluppa a partire da un caso clinico che, a rotazione, viene presentato da uno dei partecipanti e che ha suscitato nell’operatore una risposta emotiva forte. I componenti del gruppo sono poi invitati a porre domande aperte per aiutare il collega a comprendere meglio i propri bisogni rispetto al caso clinico raccontato e fornire un supporto alla riflessione sulle strategie alternative da mettere in atto in situazioni simili future8. Attraverso questo processo di condivisione, si lavora sulle dinamiche interne all’équipe, aumentandone la consapevolezza da parte dei membri fino a produrre un cambiamento laddove sia necessario, dal livello organizzativo a quello psicologico e relazionale.

Tale intervento dovrebbe quindi essere incluso tra le buone pratiche che un’organizzazione può introdurre per garantire l’efficacia dell’assistenza, ma su questo pesa l’attuale scarsità di evidenze scientifiche che indichino quali elementi possano davvero condurre a tale risultato. Per evitare che questo infici inevitabilmente i benefici della supervisione, è quindi necessario un impegno nello sviluppo di progetti strutturati e continuativi, dotati di una cornice teorica e metodologica solida che permetta l’analisi e la condivisione dei risultati, così da consentire una più chiara definizione e applicazione di questo prezioso strumento.

Gruppi Balint

Con il termine “gruppi Balint” (GB) si intende un metodo di formazione psicologica, inizialmente rivolto ai medici di medicina generale ma ormai applicato agli operatori delle professioni di aiuto, ideato dallo psicoanalista ungherese Michael Balint e che a partire dagli anni ‘60 si è progressivamente diffuso in numerosi Paesi occidentali.

Come per la supervisione clinica, anche in questo caso la promozione del benessere lavorativo si pone come obiettivo dell’intervento, ma i presupposti teorici e la struttura metodologica sono più definiti e formalizzati. L’addestramento del curante al rapporto professionale con il paziente sul piano della relazione costituisce il focus centrale dei GB, dove appunto la competenza relazionale del medico viene considerata alla stregua di un farmaco, fondamentale per il buon esito della cura e che di conseguenza non può essere lasciata solo all’esperienza, al buon senso e alla buona volontà del singolo.

Il GB può essere considerato come un gruppo di formazione:

piccolo poiché la composizione ottimale è di 10-15 partecipanti;

guidato da uno o due conduttori solitamente psichiatri o psicologi con formazione psicoanalitica;

continuo poiché l’intervento prevede una serie di incontri di circa 90 minuti con una frequenza prefissata e continuativa, quindi non occasionale, generalmente a cadenza quindicinale;

eterocentrato nel senso che il tema degli incontri è centrato sull’esperienza professionale dei partecipanti, vale a dire un caso clinico, e non sulle dinamiche interne del gruppo come accade per i percorsi di tipo terapeutico;

ad orientamento psicoanalitico dal momento che gli elementi emotivi della relazione di cura costituiscono il focus del lavoro del gruppo9.

Durante ogni incontro, la discussione collettiva inizia da un caso clinico “problematico” che viene presentato a turno da ognuno dei professionisti sanitari coinvolti e si sviluppa attraverso la partecipazione degli altri componenti del gruppo che possono porre domande, formulare ipotesi ed esprimere pareri.

Dal punto di vista dell’efficacia, una review del 201910 ha segnalato alcune evidenze rispetto agli esiti positivi dei GB nella formazione degli studenti in medicina e degli specializzandi, soprattutto relative al miglioramento della relazione medico-paziente, alla diminuzione del burnout, all’aumento dell’empatia, alla gestione dello stress e dell’ansia. Tuttavia sono scarsi gli studi sull’impiego dei GB nell’ambito specifico degli operatori sanitari che si occupano di cure palliative o comunque all’interno dei percorsi di formazione in tale disciplina11.

Staff support

Con il termine “staff support” si fa riferimento ad una pluralità di interventi finalizzati all’integrazione della dimensione professionale personale e umana dell’operatore, all’analisi personale e professionale dei casi clinici mediante il confronto interpersonale con i colleghi dell’équipe12. È stato generalmente riconosciuto il valore fondamentale che il supporto specializzato allo staff, definito appunto “staff support”, apporta ai professionisti di cure palliative. Lo “staff support” ha l’obiettivo di supportare l’équipe assistenziale focalizzandosi sulle aree di criticità che si possono incontrare attraverso l’implementazione di competenze relazionali e comunicative, la prevenzione di ricadute negative sugli operatori e la promozione del benessere generale.

I temi affrontati si differenziano in relazione agli obiettivi che si vogliono perseguire (elaborazione del lutto, consapevolezza emotiva, riduzione dello stress, ecc.), e alle tecniche che vengono impiegate (scambio verbale, narrazione, scrittura espressiva, arteterapia, mindfulness, ecc.).

Una forma di “staff support” particolarmente diffusa è la “staff support case” in cui il supporto psicologico all’équipe è da intendersi come un intervento che aiuta il gruppo di lavoro a leggere le situazioni cliniche e l’interazione tra queste e l’équipe stessa12. La peculiarità rispetto agli interventi sinora descritti è data dal fatto che è compito dello psicologo interno all’équipe condurli e progettarli e quindi trovare le modalità più adatte di attuazione analizzando il clima ed il benessere organizzativo all’interno della propria équipe.

Lo “staff support case” utilizza la discussione dei casi clinici come strumento di lavoro e sostiene l’équipe nell’affrontare all’interno di uno spazio relazionale le criticità della pratica clinica permettendo all’operatore di uscire dal proprio vissuto individuale, trasformando l’esperienza in un’esperienza di gruppo condivisibile ed elaborabile.

Interventi psico-educazionali

Con il termine interventi psico-educazionali si fa riferimento a training di supporto che hanno l’obiettivo di lavorare sul tema delle paure connesse alla morte e delle tematiche di fine vita aiutando gli operatori a maturare risposte e significati personali alle emozioni suscitate da tali tematiche5 permettendo di trasformare le situazioni di disagio in esperienze maggiormente costruttive ed evolutive. Si tratta di un insieme organizzato di interventi che affiancano momenti informativi ad interventi psicologici di supporto finalizzati a migliorare la conoscenza e la gestione di specifiche problematiche e sono finalizzati alla prevenzione dello stress lavorativo attraverso l’insegnamento di coping skills cognitivi e tecniche di rilassamento. Tali programmi, condotti in gruppo, hanno l’obiettivo di migliorare la conoscenza e le skill professionali degli operatori sanitari che assistono i pazienti alla fine della vita. Alcuni studi, per la maggior parte qualitativi, hanno identificato diversi domini di abilità di interesse: abilità cognitive, abilità mente-corpo, abilità di miglioramento della resilienza e abilità di coping13.

Interventi di mindfulness e meditazione orientata alla compassione

Gli interventi di mindfulness hanno offerto prove di efficacia in diverse popolazioni cliniche con benefici sia in termini di salute fisica che mentale, nonostante siano ancora poche le conoscenze e gli studi riguardo gli interventi di mindfulness in cure palliative14.

l training di mindfulness prevedono il raggiungimento, da parte di quanti ne fanno esperienza, di una capacità di formulazione di un giudizio positivo su di sé, di affermazione delle proprie risorse e di indulgenza verso i propri limiti14.

In letteratura si trovano descritti diversi programmi dedicati agli operatori di cure palliative che hanno evidenziato un incremento della resilienza, un miglioramento della qualità di vita e favorito adeguate strategie di coping14.

Operare nel contesto delle cure palliative significa misurarsi con aspetti esistenziali, prima che professionali. I confronti con la patologia incurabile richiedono agli operatori lo sviluppo di competenze e abilità specifiche che permettano di gestire il distress che caratterizza il fine vita per raggiungere una buona qualità di vita del paziente e per il benessere degli operatori. Ne consegue la necessità, sul piano organizzativo e normativo, di attivare interventi di supporto alle équipe curanti, focalizzandosi sulla prevenzione e cura del disagio, sulle dinamiche relazionali complesse che caratterizzano il contesto delle cure palliative.

Conflitto di interessi: l’autore e le autrici dichiarano l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

1. Società Italiana di Cure Palliative (SICP). Psicologi in cure palliative. Contributo degli psicologi alle cure palliative, 2020.

2. Nyatanga B. Caring as a source of death anxiety in palliative care. Br J Community Nurs 2019; 24: 452.

3. Sinclair S, Norris JM, McConnell SJ, et al. Compassion: a scoping review of the healthcare literature. BMC Palliat Care 2016; 15: 6.

4. Corradi-Perini C, Beltrão JR, Ribeiro URVCO. Circumstances related to moral distress in palliative care: an integrative review. Am J Hosp Palliat Care 2021; 38: 1391-7.

5. Oldenburger E, De Roo ML. Burnout of healthcare professionals in supportive and palliative care: a summary of recent literature. Curr Opin Support Palliat Care 2023; 17: 77-83.

6. Società Italiana di Cure Palliative (SICP). Il Core Curriculum dello psicologo in Cure Palliative, 2013.

7. Società Italiana di Cure Palliative (SICP). Documento di consenso e compendio. Appropriatezza dei termini psicologi e relazionali in cure palliative, 2014.

8. Edmonds KP, Yeung HN, Onderdonk C, et al. clinical supervision in the palliative care team setting: a concrete approach to team wellness. J Palliat Med 2015; 18: 274-7.

9. Balint M, Benincasa F, Perini M. Medico, paziente e malattia. Milano: Feltrinelli, 1961. 

10. Yazdankhahfard M, Haghani F, Omid A. The Balint group and its application in medical education: A systematic review. J Educ Health Promot 2019; 8: 124.

11. Popa-Velea O, Trutescu CI, Diaconescu LV. The impact of Balint work on alexithymia, perceived stress, perceived social support and burnout among physicians working in palliative care: a longitudinal study. Int J Occup Med Environ Health 2019; 32: 53-63.

12. Commissione Psicologi SICP. Gli interventi psicologici a sostegno dell’équipe di Cure Palliative. 2017.

13. Back AL, Steinhauser KE, Kamal AH, et al. Building resilience for palliative care clinicians: an approach to burnout prevention based on individual skills and workplace factors. J Pain Symptom Manage 2016; 52: 284-91.

14. Pizzichetti V, Della Giuliana A, Lombardo L. Mindfulness e cure palliative: aree e criteri di intervento. Rivista Italiana di Cure Palliative 2019; 21: 111-7.