Le cure palliative pediatriche e neonatali in Italia:
quale ruolo per l’antropologia medica?

CRISTINA VARGAS

Laboratorio dei Diritti Fondamentali, Collegio Carlo Alberto, Fondazione Fabretti, Torino.

Pervenuto il 19 giugno 2023. Accettato il 27 giugno 2023.

Riassunto. Le cure palliative pediatriche e neonatali (CPP) si propongono come uno strumento per dare risposte concreta ai bisogni complessi dei malati inguaribili in età pediatrica e alla loro rete familiare. Nel presente contributo vorrei proporre una riflessione su come le Medical Humanities, e in particolare l’antropologia medica, possono contribuire alla diffusione e allo sviluppo delle CPP. In primo luogo, cercherò di evidenziare il ruolo delle metodologie qualitative e degli strumenti narrativi per dare voce all’esperienza dei bambini malati e delle loro famiglie. In secondo luogo, mi soffermerò sull’importanza degli aspetti comunicativi e relazionali sia nella presa in carico, sia nel garantire un coinvolgimento attivo del bambino nelle scelte che riguardano il suo corpo e la sua salute, tenendo conto della sua età e delle sue capacità. Infine, data la significativa presenza di famiglie straniere che accedono alle CPP, l’antropologia medica, può dimostrarsi uno strumento importante nella gestione della pluralità linguistica, culturale e religiosa che oggi caratterizza la nostra società.

Parole chiave. Cure palliative pediatriche, antropologia medica, autonomia relazionale, autodeterminazione, comunicazione interculturale.

Pediatric and neonatal palliative care in Italy: what role can play medical anthropology?

Summary. Paediatric and neonatal palliative care (PPC) is an essential tool to give concrete answers to the complex needs of incurable paediatric patients, and their family network. In this contribution I will discuss how the Medical Humanities, and in particular medical anthropology, can contribute to the diffusion and the development of PPC. First, I will highlight the role of qualitative research and of narrative medicine in giving voice to children’s and families’ illness experience. Secondly, I will focus on the importance of communication and relation, both in guaranteeing the best possible care, and in favouring an active involvement of the child in decision-making, taking into account her age and her abilities. Finally, given the significant presence of foreign families who access PPC, medical anthropology can prove to be an important tool in the management of the linguistic, cultural and religious plurality that characterizes our contemporary society.

Key words. Paediatric palliative care, medical anthropology, relational autonomy, self-determination, intercultural communication.

Introduzione

La diagnosi di una malattia grave e incurabile in un figlio oppure la nascita di un bambino affetto da una condizione che compromette le sue possibilità di sopravvivenza e per la quale non ci sono prospettive di guarigione sono eventi dirompenti; un dolore intenso e travolgente che colpisce in modo diverso ciascuno dei membri del gruppo familiare. Queste situazioni, oltre a comportare di per sé un’enorme sofferenza, rappresentano anche l’inizio di un percorso di cure lungo, faticoso, incerto e spesso imprevedibile, che porterà a riscrivere in modo profondo e irreversibile la storia del bambino, dei genitori e della famiglia intera.

Il panorama diventa ancora più complesso quando c’è una prognosi infausta ed è necessario fare i conti con la fine. Come ha messo in luce una recente ricerca nazionale diretta dal sociologo Asher Colombo1, la cornice sociale di tabù e di “non pensabilità” della morte, descritta da storici come Michel Vovelle2 e Geoffrey Gorer3, è ancora oggi ampiamente diffusa nel contesto italiano. In questo contesto la morte più dirompente, più “innaturale” e più indicibile è quella dei neonati e dei bambini. Forse non a caso, nella lingua italiana, che dispone dei termini orfano e orfana per designare un figlio o una figlia che ha perso i genitori, e delle parole vedovo e vedova per riferirsi a chi ha perso il coniuge, manca una parola che possa indicare la condizione di un genitore a cui muore un figlio o quella di un bambino che perde un fratello o una sorella. Queste “parole che non ci sono” testimoniano la fatica della nostra società nell’aprire un discorso pubblico su temi angoscianti, che si preferirebbero dimenticare.

Massimo Recalcati, dando voce a un sentire ampiamente condiviso, scrive in un suo recente volume: “I cuccioli – di uomo e di animale – si assomigliano perché incarnano l’aspirazione positiva a vivere e, nello stesso tempo, con la loro morte rivelano il nostro essere totalmente inermi di fronte alla vita stessa. Lo scandalo della morte di un cucciolo mostra, nella vita umana come in quella animale, che la morte è sempre ingiusta, o che, se si preferisce, non esiste morte naturale”4.

Parlare dell’accompagnamento al fine vita nell’età pediatrica è estremamente difficile, perché spalanca una verità che ci sembra andare contro ciò che percepiamo come l’“ordine naturale” e che, come società e come individui, facciamo fatica ad accettare: anche i neonati, i bambini e gli adolescenti possono essere colpiti da malattie gravi e inguaribili che comportano dolore, che hanno un impatto significativo sulla loro qualità di vita, che limitano le loro prospettive di sopravvivenza e possono portare a una morte precoce.

Ci sono molteplici scenari in cui, indipendentemente dall’età, i malati e le loro famiglie si trovano a confrontarsi con il grande nodo dell’inguaribilità e a sperimentare tutte le problematiche cliniche, corporee, psicologiche, affettive, sociali e relazionali che questo tipo di malattia comporta. In questi casi, le cure palliative pediatriche e neonatali (CPP) si propongono come uno strumento per dare risposte concrete ai bisogni complessi dei malati e della loro rete familiare e per garantire un’attiva “presa in carico globale di corpo, mente e spirito del bambino e comprende il supporto attivo alla famiglia” (OMS 1998)5.

Quale contributo possono offrire le Medical Humanities, e nello specifico l’antropologia medica, ai professionisti che si approcciano a questo ambito ancora relativamente nuovo ma in rapido sviluppo? Il presente articolo vuole proporsi come una prima riflessione intorno a questa grande domanda, soprattutto a partire da alcune esperienze, per me nuove, come docente e formatrice nel campo delle CPP e delle cure palliative neonatali. Queste occasioni mi hanno offerto la possibilità di confrontarmi con gli operatori sull’incidenza dei fattori socioculturali nei casi da loro affrontati e di riflettere insieme a loro sulle specificità etiche, comunicative e relazionali dell’incontro fra l’équipe curante, i bambini e le loro famiglie.

Uno sguardo alla storia
delle cure palliative pediatriche

Come è stato sottolineato nella Consensus Conference Le cure palliative pediatriche: dalla diagnosi di inguaribilità al lutto (2016) le CPP “non sono le cure della terminalità”6, nel senso che la presa in carico del bambino e dei genitori non riguarda solo l’assistenza al fine vita, ma dovrebbe iniziare al momento della diagnosi e dovrebbe continuare lungo tutto il percorso di malattia, anche quando c’è una terapia curativa concomitante in corso. Gli scenari di eleggibilità sono molteplici e non è questa la sede per descriverli in modo esaustivo; tuttavia, mi sembra importante sottolineare che si tratta di situazioni ad elevata complessità, che richiedono un approccio multidisciplinare e di norma implicano l’attivazione di percorsi di cura lunghi e molto articolati. Durante il percorso di cura, inoltre, i margini di incertezza sono alti ed è necessaria una costante riformulazione dei bisogni assistenziali, sia perché essi cambiano nel tempo in funzione dell’andamento della patologia, sia perché è necessario tener conto delle sfide evolutive della crescita, che si presentano in modo diverso in ogni paziente.

Breve o lungo che sia, il periodo che un bambino e una famiglia trascorrono in carico alle cure palliative è un tempo sospeso fra un “non più” e un “non ancora”. Un tempo liminare7, carico di incertezze, di speranze e delusioni; di dubbi, di fatica, rabbia e dolore, ma anche di speranza e amore. L’accompagnamento, dunque, può essere fondato solo su una profonda empatia; sulla capacità di attivare risorse multidisciplinari e attivare forme di supporto a 360 gradi; sulla presenza costante della rete di operatori e sulla loro capacità di accogliere le molteplici emozioni che costellano il percorso.

I primissimi lavori a livello internazionale sulla sofferenza fisica e psichica dei bambini gravemente malati risalgono agli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, in una cornice concettuale dominata da una chiara sottovalutazione dell’impatto del dolore nei pazienti in età pediatrica affetti da malattie croniche, e da una forte resistenza a prescrivere oppioidi ai bambini8.

Le CPP cominciarono timidamente a svilupparsi in termini filosofici solo intorno agli anni Settanta, grazie all’eco che ebbe in pediatria il concetto di “dolore totale”, introdotto da Cicely Saunders nell’accompagnamento dell’adulto in fase terminale. Sebbene nella pratica clinica non si osservassero ancora degli approcci proattivi alla gestione del dolore, l’apertura concettuale portò al graduale sviluppo di un nuovo modo di intendere la presa in carico. Nel 1969 la stessa Saunders9, invitata a intervenire in un simposio sulla cura dei bambini morenti, enfatizzò l’importanza di un approccio integrato e interdisciplinare, che era in contrasto con la tendenza allora dominante a delegare alla sensibilità del singolo pediatra il compito dell’accompagnamento.

Nel mondo anglosassone si cominciò a parlare di “total care” per riferirsi a una presa in carico capace di occuparsi tanto delle componenti fisiche quanto di quelle psicologiche della malattia; venne introdotta una riflessione sulla gestione del dolore e, per la prima volta, si aprì un interrogativo etico e clinico sul dolore iatrogeno, fino ad allora poco problematizzato. Alcuni autori cominciarono infatti a mettere in discussione la diffusa tendenza a praticare interventi o trattamenti invasivi, senza considerare il rischio di aumentare la sofferenza dei piccoli pazienti10.

Queste riflessioni non ebbero ricadute pratiche significative nell’immediato, tuttavia, l’interesse della comunità scientifica rispetto alla gestione del dolore e alla cura dei bambini affetti da malattie non guaribili crebbe rapidamente e, nel 1993, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, con il supporto della Fondazione Livia Benini, invitò un gruppo internazionale di esperti a una Consensus Conference nella quale si gettarono le basi per la stesura delle linee guida “Cancer Pain Relief and Palliative Care in Children”, approvate nel 1998 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dall’Associazione Internazionale per lo Studio del Dolore (IASP)11.

Questo e altri documenti successivi, fino ad arrivare alle linee guida dell’OMS “Integrating palliative care and symptom relief into paediatrics”12, approvate nell’agosto del 2018, hanno fornito una base concreta per lo sviluppo delle CPP in tutto il mondo. La consapevolezza dell’importanza delle CPP è rapidamente cresciuta; tuttavia, ci sono ancora oggi gravi disuguaglianze nella possibilità di accedere alle CPP tanto a livello internazionale quanto in Italia.

In Italia, le CPP sono state introdotte grazie alla Legge n. 38 del 2010, che prevedeva l’implementazione di reti territoriali e ospedaliere per la presa in carico sia dei bambini, sia degli adulti. In diverse regioni sono stati attivati servizi efficaci, e si sta portando avanti un importante lavoro culturale di diffusione e sensibilizzazione. La presenza di CPP è tuttavia disomogenea sul territorio nazionale. Una ricerca condotta da Franca Benini e i suoi collaboratori13 nel 2021 ha stimato che attualmente in Italia circa 20.540-32.864 bambini necessitano di CPP (34-54 bambini/100.000 abitanti) di cui 18 bambini/100.000 abitanti richiedono CPP specializzato. Tenendo conto di questi e altri dati, la Società Italiana di Pediatria ha stimato che ogni anno ci sono circa 30.000-35.000 bambini che richiederebbero CPP, ma purtroppo solo il 15% di questi ne ha effettivamente accesso.

Il ruolo delle Medical Humanities

Forse uno degli aspetti in cui le Medical Humanities possono contribuire in modo più diretto e rilevante alla diffusione e allo sviluppo delle CPP è attraverso la possibilità che offrono le metodologie qualitative e gli strumenti narrativi per dare voce all’esperienza dei bambini e delle loro famiglie.

Un aspetto nodale delle CPP è, infatti, il ruolo della famiglia: anche nelle cure palliative dell’adulto c’è una particolare attenzione alla rete di supporto familiare e alla figura del caregiver, ma nelle CPP la famiglia è al centro e, in un certo senso, il centro dell’iter di cura. La presenza amorevole dei genitori, fratelli e sorelle, nonni e nonne (nella misura in cui ciascuna di queste persone è disponibile e coinvolta nella cura del bambino) è essenziale per il benessere fisico e psicologico dei pazienti. Inoltre, quando possibile, la permanenza a casa – l’habitat naturale del bambino – e la riduzione del tempo di ospedalizzazione sono scelte che vanno privilegiate per offrire ai piccoli pazienti una vita il più normale e dignitosa possibile. A questo si aggiunge che i genitori (o, in loro assenza, gli adulti che si occupano del bambino) hanno delle responsabilità umane, sociali e legali relative alla cura del bambino e alle decisioni che riguardano l’iter terapeutico: sono quindi implicati in prima persona tanto nell’assistenza in sé, quanto nei processi decisionali e nelle scelte che è necessario compiere durante il percorso.

La prima ricerca antropologica in questo campo, condotta nel 1978 da Myra Bluebond-Langner14, partiva proprio dall’interrogarsi su quanto e cosa “sapessero” i pazienti pediatrici rispetto alla loro malattia e alla loro prognosi. Lo studio, condotto nel Dipartimento di Pediatria di un grande ospedale del Midwest statunitense, coinvolse 32 bambini fra i tre e i nove anni affetti da leucemia, una malattia che allora nella maggior parte dei casi portava alla morte (in effetti purtroppo nessuno sopravisse). Nella ricerca vennero coinvolte anche le loro famiglie.

La ricerca si avvaleva di diverse metodologie qualitative: interviste e conversazioni in ospedale con gli operatori sanitari incaricati della presa in carico dei bambini; di interviste e conversazioni con i caregiver, con i bambini e con tutte le persone significative presenti; osservazione etnografica; play therapy e visite a casa durante i periodi in cui i bambini non erano ricoverati. Questi strumenti permisero di individuare alcuni aspetti cruciali sul piano della comunicazione.

L’autrice descrisse in modo attento e delicato il mondo di Jeffrey, che non faceva domande agli adulti ma era ben consapevole di essere gravemente malato: il suo vivere quotidiano era infatti caratterizzato da parole concitate sussurrate dai medici ai genitori dietro porte socchiuse; da nasi e occhi rossi per il pianto che la mamma tentava di celare; da visitatori che trattenevano a stento le lacrime e portavano regali inattesi; di lunghe permanenze in un luogo freddo e minaccioso dove tutti sapevano che si andava per morire (l’ospedale).

Osservando le conversazioni che i bambini ricoverati avevano fra di loro (compreso Jeffrey), Bluebond-Langner constatò che tutti loro, in modo proporzionale all’età, sapevano quale fosse la loro condizione anche se nessuno gliene aveva mai parlato apertamente. Quando parlavano con gli adulti, però, i piccoli pazienti tendevano a non parlare di queste cose per “non far soffrire i grandi” e per evitare di spezzare le modalità comunicative adottate intorno a loro. In altre parole, il silenzio degli adulti “socializzava” i bambini all’indicibilità della morte.

Nonostante siano passati più di quarant’anni, questo studio rimane attuale nella misura in cui fa emergere la complessità della comunicazione nell’ambito delle CPP, che è caratterizzata da una molteplicità di livelli, verbali e non verbali, e che deve tener conto di tutti i soggetti coinvolti: il bambino, i genitori, l’équipe curante, ma anche gli altri membri della famiglia e la rete territoriale di supporto.

Nella “Carta dei diritti del bambino morente” (Carta di Trieste)15 è sottolineato il diritto del bambino a essere ascoltato e informato sulla propria malattia, nel rispetto delle sue richieste, dell’età e della sua capacità di comprensione. Sarebbe, dunque, un dovere dei genitori e dell’équipe dedicare il tempo necessario a costruire una comunicazione personalizzata, commisurata allo sviluppo e fondata sull’ascolto. Tuttavia, soprattutto nelle situazioni in cui non c’è una presa in carico da parte delle CPP, il clima relazionale e comunicativo è ancora oggi caratterizzato dall’idea che il “non dire” sia un modo per proteggere il malato o per evitare a lui o lei una sofferenza in più.

La complessità delle scelte di fine vita
nelle cure palliative pediatriche

Un nodo strettamente collegato a quello della comunicazione e la possibilità che il bambino prenda parte attiva nelle scelte che riguardano il suo corpo e la sua vita, in particolare nelle fasi finali.

La Legge 219 del 2017 stabilisce che: “La persona minore di età o incapace ha diritto alla valorizzazione delle proprie capacità di comprensione e di decisione (…). Deve ricevere informazioni sulle scelte relative alla propria salute in modo consono alle sue capacità per essere messa nelle condizioni di esprimere la sua volontà”. E, al comma due: “Il consenso informato al trattamento sanitario del minore è espresso o rifiutato dagli esercenti la responsabilità genitoriale o dal tutore tenendo conto della volontà della persona minore, in relazione alla sua età e al suo grado di maturità, e avendo come scopo la tutela della salute psicofisica e della vita del minore nel pieno rispetto della sua dignità”16.

La Legge, dunque, indica chiaramente che la strada da percorrere è quella di fare tutto il possibile per promuovere una comunicazione aperta e per tutelare l’autodeterminazione del minore, senza mai perdere di vista la sua età, il suo grado di sviluppo e le sue competenze, all’interno di un approccio fondato sul concetto di autonomia relazionale. Tuttavia, nel nostro contesto sociale, solo in tempi molto recenti si comincia a diffondere questo tipo di approccio.

Il tema delle barriere comunicative è stato affrontato nel 2000 da Joanne Wolfe et al. 17 Nel loro studio furono intervistati 103 genitori i cui figli avevano ricevuto trattamenti oncologici presso due ospedali di Boston e il cui percorso aveva avuto un esito infausto. Vennero inoltre coinvolti 42 oncologi che si erano occupati direttamente dell’assistenza ai bambini. Le criticità emerse furono numerose. L’89% dei genitori riteneva che il proprio figlio avesse sofferto molto a causa di sintomi come il dolore, la dispnea e l’astenia, che erano stati insufficientemente affrontati. Questi sintomi, nella prospettiva dei genitori, erano stati trattati efficacemente solo nel 27% dei casi per quanto riguarda il dolore, e del 17% per la dispnea.

In un altro studio dello stesso periodo il team guidato da Wolfe si soffermò sulla comprensione della prognosi da parte delle famiglie. Ne emerse un gap di circa 100 giorni fra il momento in cui l’équipe medica aveva compreso che non c’erano più prospettive di guarigione e che il bambino o bambina sarebbe morto in un lasso di tempo relativamente breve, e il momento in cui i genitori diventavano consapevoli della prognosi dei propri figli. Questi 100 giorni testimoniavano una grave lacuna comunicativa, che indubbiamente aveva avuto un impatto deleterio sulle decisioni cliniche.

La connessione fra il modello comunicativo usato dagli specialisti e le scelte dei genitori è stata recentemente affrontata da Fay et al. in una ricerca condotta in Messico nel 2021, in un ospedale pediatrico altamente specializzato che accoglie pazienti e famiglie in condizioni di svantaggio socioeconomico18. Le osservazioni del gruppo di ricercatori mostrano una realtà ospedaliera in cui la voce dei genitori tende ad essere dominante, ma nella quale comunque ci sono dei canali attraverso i quali i bambini, quando la loro età e le loro condizioni cliniche lo consentono, possono esprimere i loro desideri e “contrattare” sia le scelte cliniche sia, più in generale, questioni riguardanti la loro vita (per esempio andare o non andare a scuola).

Nella cornice di un grande ospedale, all’interno della quale coesistono diversi approcci alla cura, i ricercatori rilevano che non c’era uniformità nelle modalità comunicative dei vari specialisti. Uno dei pediatri del team di cure palliative ospedaliero racconta: “…i medici, in particolare gli oncologi, tendono a dire: ‘[se fa questo trattamento] c’è un 1% di probabilità che vada avanti, che viva altri tre anni’. Quello che non viene detto è che far parte di quell’1% comporta molta sofferenza e che non è scontato che il bambino rientri in quell’1%... noi del team CP, invece, chiediamo, in uno scenario realistico, ’cosa volete tu e tuo figlio?’. Questo è il nostro lavoro come collegamento tra genitori e specialisti”.

Quando invece c’è già una relazione con la famiglia e con il bambino, la possibilità che egli prenda parte nelle decisioni si consolida. Gli operatori intervistati notano che già a sette, otto anni, e ancor più nell’adolescenza, i bambini sono in grado di dire cosa vogliono: è quindi molto chiaro, per chi opera nell’ambito delle CPP, che è una responsabilità dell’équipe offrire a tutto il gruppo famigliare le migliori opzioni possibili per garantire la miglior qualità di vita del bambino, tenendo conto che anche la sua voce va accolta e ascoltata.

A distanza di vent’anni, soprattutto nel mondo anglosassone dove è ormai assodato un approccio fondato sulla disclosure (quanto meno nell’adulto), sono stati fatti notevoli passi avanti in materia di trasparenza e chiarezza nella comunicazione medico-paziente anche in ambito pediatrico. In Italia, invece, la comunicazione rimane un nodo critico. Per un genitore ammettere che il proprio figlio non potrà guarire vuol dire confrontarsi con la peggiore delle paure, con un dolore “innaturale”, uno strazio che spezza l’ordine delle generazioni, e che mina le speranze su cui si fondava fino a quel momento l’esistenza dell’intera famiglia. Proprio per questo motivo la scelta di interrompere le cure attive implica una profonda riformulazione del senso della vita, dei ruoli genitoriali e di ciò che nella nostra società è concepito come «l’ordine naturale». In questa cornice emotiva, gli operatori hanno il complesso compito di sostenere il gruppo famigliare nella presa di decisioni difficili, ponendo al centro i concetti di appropriatezza e proporzionalità, nell’ottica di tutelare la qualità della vita del bambino.

Famiglie multiculturali

Infine, un aspetto da non trascurare è la presenza di famiglie straniere che accedono, o avrebbero bisogno di accedere, alle CPP. Queste famiglie incontrano numerosi problemi specifici.

Il primo e più rilevante ostacolo alla costruzione di una buona alleanza di cura sono le barriere linguistiche e comunicative, che possono essere molto rilevanti. Può sembrare scontato, ma è necessario ricordare che un codice linguistico condiviso appieno (non solo parzialmente) è un prerequisito per la comprensione della situazione clinica del bambino e per la co-costruzione di un iter di cura. Ciò nonostante, nella pratica clinica ci si confronta con frequenza con situazioni in cui non ci sono mediatori interculturali ed è necessario “capirsi” in qualche modo. Capita quindi di dover ricorrere ai servizi di traduzione telefonica; oppure ci si affida all’unico membro della famiglia che ha una certa padronanza della lingua italiana o, ancora, si fa il possibile per trasmettere le informazioni essenziali usando un po’ di italiano, qualche parola di inglese o francese e appoggiandosi ai traduttori online. Tutte queste risorse sono utili e consentono di destreggiarsi in situazioni altrimenti ingestibili, ma hanno dei limiti e non sono sufficienti a garantire uno scambio comunicativo fluido e privo di malintesi.

Come ho più volte scritto in passato, sarebbe importante promuovere la presenza di mediatori interculturali qualificati e formati, con cui le équipe possano collaborare in modo stabile e continuativo19,20. I servizi di mediazione interculturale hanno di fatto subito una forte contrazione negli ultimi anni, rendendo difficile per gli operatori fare ricorso in modo sistematico e continuativo a queste figure, essenziali nell’incontro con le famiglie straniere. Il compito di un mediatore o mediatrice interculturale, infatti, non è “solo” quello di tradurre, è soprattutto quello di facilitare una comunicazione bidirezionale, permettendo l’emergere di questioni di rilievo dal punto di vista culturale, sociale o religioso.

Un aspetto particolarmente rilevante è quello dei fattori socioeconomici. La malattia o la disabilità grave di un figlio ha anche numerose implicazioni sociali, e comporta un concreto rischio di veder peggiorare sensibilmente la situazione economica della famiglia21. Come hanno evidenziato Quesada et al.22, nei nuclei stranieri è frequente trovare situazioni di vulnerabilità strutturale, che amplificano le difficoltà connesse alla malattia cronica e limitano la capacità del gruppo di adattarsi alla nuova condizione. Ci sono, inoltre, genitori irregolari o non residenti, il cui tipo di permesso di soggiorno rende impossibile l’attivazione di forme di tutela sociale che sarebbero accessibili in altre situazioni.

Uno sguardo al contesto internazionale mette in luce come le disuguaglianze economico-sociali si traducano in disuguaglianze sanitarie. Nei paesi a medio e basso reddito fra le motivazioni che spingono i bambini a situazioni di gravità clinico-assistenziale tali da richiedere le CPP, oltre alle malattie già elencate, troviamo l’HIV e l’AIDS in mancanza di accesso a terapie antiretrovirali, la denutrizione severa e altre condizioni derivate dalla povertà estrema e dall’assenza di servizi di salute adeguati e accessibili. Il fatto che malattie e condizioni, che sarebbero evitabili, portino alla sofferenza e alla morte ci fa toccare con mano il costo umano e sociale dell’emarginazione e riporta alla mente le efficaci riflessioni di Paul farmer su come la violenza strutturale abbia un impatto diretto sui corpi e sulla salute23.

Alle difficoltà economiche, sociali e abitative spesso si aggiunge l’isolamento. Un errore comune è quello di immaginare le famiglie migranti come parte di una comunità. Questo non sempre è vero, anzi, nella maggior parte dei casi le famiglie allargate sono lontane, non si hanno a disposizione nonni a cui delegare alcuni compiti di cura, le reti di supporto sono limitate e non è possibile pensare a risorse a pagamento, come una babysitter o un’assistente domestica.

Infine, non va trascurato il tema della differenza culturale. Ci possono forme diverse di approcciare i processi decisionali; i ruoli di genere cambiano da una cultura all’altra e ci sono differenze significative nella rappresentazione del corpo, della salute, della malattia o dell’infanzia a livello transculturale.

Questa diversità culturale andrebbe esplorata senza perdere di vista l’unicità di ogni storia, di ogni famiglia e di ogni singolo individuo. La cultura, infatti, non determina la soggettività, è piuttosto una “mappa mentale” che permette di conferire senso alla realtà e di attingere, in modo dinamico e selettivo, a un patrimonio di saperi e tradizioni condivise.

Nella profonda riscrittura del ruolo genitoriale che implica una diagnosi di malattia inguaribile in un figlio, la cultura di origine è una risorsa, perché rappresenta un nucleo profondo di appartenenza e un ancoraggio a significati che hanno un elevato valore esistenziale e personale per ciascuno dei membri della famiglia. Essa, però, può talvolta essere un fattore ostacolante, che rende difficile lo sviluppo di una buona relazione fra il bambino e i genitori e i curanti. Ci possono essere situazioni di sfiducia e fraintendimento reciproco, oppure in alcuni casi si può arrivare al conflitto, quando il modo di intendere e gestite la malattia e la disabilità nel paese di origine diverge o si contrappone rispetto al modello della realtà ospitante: i genitori, in questi casi, possono subire pressioni da parte delle famiglie in patria; possono sperimentare un forte senso di disorientamento, oppure possono sentirsi arrabbiati, giudicati, o semplicemente in difficoltà di fronte alle aspettative dell’équipe curante.

In questi casi la mediazione interculturale e, nelle situazioni più complesse, l’etnopsicologia e l’etnopsichiatria, discipline introdotte in Italia da autori come Piero Coppo24 e Roberto Beneduce25,26, sono risorse importanti perché ciascuno possa uscire dai propri orizzonti culturali e fare un passo verso l’altro, attivando un incontro interculturale e intersoggettivo.

Infine, credo sia importante, tanto per le famiglie credenti quanto per quelle laiche (straniere e non), in particolare nelle fasi finali, dare spazio alla ritualità e ai diversi modi per dire addio: le parole, i gesti e le azioni che permettono il commiato hanno un valore profondo, aiutano a dare un senso al dolore della perdita e sono parte fondamentale del percorso di elaborazione del lutto.

Riflessioni conclusive

Le CPP si differenziano in molti modi dalle cure palliative dell’adulto: esse sovente comportano percorsi lunghi di presa in carico, in cui la comunicazione e la relazione sono centrali e sono chiamate a dare risposte a bisogni multidimensionali, complessi e in continua evoluzione. L’interdisciplinarietà, la continuità e il lavoro corale sono dunque elementi nodali del percorso di cura.

Oltre al suo ruolo nella presa in carico delle famiglie straniere, l’antropologia medica, in quanto strumento di pensiero e di ricerca che consente di dare voce ai bambini e alle loro famiglie, può offrire un contributo a sollevare interrogativi e stimolare riflessioni sulla comunicazione, sulla dimensione relazionale, sul ruolo della cultura e della spiritualità. Essa può supportare gli operatori sanitari nell’imprescindibile compito di sviluppare uno sguardo specifico sul panorama italiano, che ha caratteristiche sociali, culturali, valoriali e umane in parte diverse rispetto a quelle del mondo anglosassone, in cui si concentrano la maggior parte dei lavori oggi disponibili.

Riprendendo le già menzionate stime della Società Italiana di Pediatria, è senz’altro importante osservare e analizzare ciò che avviene durante la presa in carico in CPP, a cui (ricordiamo) accede solo il 15% dei bambini che ne avrebbero bisogno. Forse, però, ancor più interessante sarebbe promuovere ricerche qualitative e quantitative che descrivano ciò che avviene nel restante 85% dei casi. Credo, infatti, che le Medical Humanities, attraverso gli interventi di formazione e di sensibilizzazione, possano contribuire a introdurre e diffondere la filosofia palliativista nelle svariate realtà ospedaliere pediatriche che si confrontano con la malattia grave.

Conflitto di interesse: l’autrice dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

1. Colombo A. Morire all’italiana. Pratiche, riti, credenze, Milano: Il Mulino, 2022.

2. Vovelle M. La morte e l’Occidente. Dal 1300 ai giorni nostri. Roma: Laterza, 2000.

3. Gorer G. Death, grief and mourning in contemporary Britain. London: Doubleday, 1965.

4. Recalcati M. La luce delle stelle morte. Saggio su lutto e nostalgia. Milano: Feltrinelli, 2022: 23.

5. Organizzazione Mondiale della Sanità. Cancer pain relief and palliative care in children. Ginevra: World Health Organization, 1998.

6. Commissione della Società Italiana di Cure Palliative (SICP) delle CPP. Conferenza di consenso “Le cure palliative pediatriche: dalla diagnosi di inguaribilità al lutto”: la definizione della eleggibilità alle CPP, 2016: 6.

7. Carter BS. Liminality in pediatric palliative care. Am J Hosp Palliat Med 2017; 34: 297-300.

8. Sisk BA, Feudtner C, Bluebond-Langner M, et al. Response to suffering of the seriously ill child: A history of palliative care for children. Pediatrics 2020; 145: e20191741.

9. Saunders C. The management of fatal illness in childhood. Proc R Soc Med 1969; 62: 550–3.

10. Chapman JA, Goodall J. Helping a child to live whilst dying. Lancet 1980; 1: 753-6.

11. McGrath PA. Development of the World Health Organization guidelines on cancer pain relief and palliative care in children. J Pain Symptom Manage 1996; 12 : 87-92.

12. Organizzazione Mondiale della Sanità. WHO Guideline, Integrating palliative care and symptom relief into paediatrics. A WHO guide for health care planners, implementers and managers. World Health Organization; 8 August 2018.

13. Benini F, Bellentani M, Reali L, et al. An estimation of the number of children requiring pediatric palliative care in Italy. Ital J Pediatr 2021; 47: 4. Disponibile online su https://doi.org/10.1186/s13052-020-00952-y

14.  Bluebond-Langner M. The private worlds of dying children. Princeton, NJ: Princeton University Press; 1978.

15. Fondazione Maruzza Lefebvre D’Ovidio-Onlus, “Carta dei diritti del bambino morente” - Carta di Trieste, Trieste: 2014.

16. Legge 219 del 2017, Art 3, comma 1.

17. Wolfe J, Klar N, Grier HE, et al. Understanding of prognosis among parents of children who died of cancer: Impact on treatment goals and integration of Palliative Care. JAMA 2000; 284: 2469-75.

18. Fay M, Guadarrama J, Colmenares-Roa T, Moreno-Licona I, Cruz-Martin AG, Peláez-Ballestas I. The relationship between proxy agency and the medical decisions concerning pediatric patients in palliative care: a qualitative study. BMC Palliat Care 2021; 20: 27. Disponibile online all’indirizzo https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7863456/

19. Vargas AC. Intercultural mediation in the Italian health-care system. In: Ferrero L, Quagliariello C, Vargas AC. Embodying borders. A migrant’s right to health, universal rights and local policies. Oxford – UK: Berghahn Books, 2021.

20. Vargas AC. L’accompagnamento di chi muore altrove. Sfide, problemi strategie. In: Viafora C, Furlan E (a cura di). Morire altrove. La buona morte in un contesto interculturale. Milano: Franco Angeli, 2014.

21. Agovino M, Parodi G, Sciulli D. Aspetti socioeconomici della disabilità: lavoro, reddito e politiche. Il caso italiano nel contesto internazionale. Torino: Giappichelli, 2020.

22. Quesada J, Hart LK, Bourgois P. Structural vulnerability and health: Latino migrant laborers in the United States. Medical Anthropology 2011; 30: 339-62.

23. Farmer P. On Suffering and structural violence: a view from below. In: Kleinman A, Das V, Lock M. Social suffering. Berkeley – Londra: University of California Press, 1997.

24. Coppo P. Etnopsichiatria. Milano: Il Saggiatore, 1996.

25. Beneduce R. Frontiere dell’identità e della memoria. Etnopsichiatria e migrazioni in un mondo creolo. Milano: Franco Angeli, 2013.

26. Beneduce R. Etnopsichiatria. Sofferenza mentale e alterità fra storia, dominio e cultura. Roma: Carocci, 2019.