Il dolore e la sofferenza

Tra fragilità del limite e forza della speranza

(Seconda parte)

GIOVANNI FARRO1, BENEDETTA LA BARBERA2

1UOSD Hospice, ARNAS Ospedale Civico di Palermo; 2UOSD Ambulatorio di terapia del dolore - ARNAS Ospedale Civico di Palermo

Pervenuto il 13 febbraio 2022. Accettato il 15 marzo 2022.

Riassunto. La riflessione sul male, sul dolore e sulla sofferenza è da sempre una delle questioni, o meglio “la questione” cruciale nel cammino dell’uomo. La ricerca del “perché”, delle cause del dolore e della sofferenza risuona sempre forte nel cuore dell’uomo. La conoscenza dei significati del dolore, delle diverse tipologie del dolore umano, della distinzione tra dolore sintomo e dolore sindrome nonché della differenza tra dolore e sofferenza, può introdurre più facilmente il lettore alla comprensione della problematica del dolore che qui viene affrontata con uno sguardo attento ed orientato alla considerazione del dato umano del limite e della fragilità da un lato (oggetto di riflessione della prima parte), e alla prospettiva umanizzante della relazione di cura dall’altro (seconda parte). La dialettica fra il dato esperienziale della fragilità dell’uomo e il dato esperienziale della forza che, anche all’interno di una situazione di dolore e di sofferenza, si può ricevere a motivo della speranza che è possibile sperimentare in una realtà di relazione di cura, potrà fornire elementi preziosi per la comprensione del valore che una competenza umana in prossimità, ascolto empatico, vicinanza compassionevole e cura fraterna e amorevole possa avere perché si realizzino ogni volta le condizioni favorevoli per l’innesco di un processo di rinascita quotidiana che, oltre ogni limite e oltre ogni morte, permetta di guardare alla vita con uno sguardo nuovo, quello gioioso e ottimista di colui che ormai ha la piena consapevolezza di non essere mai più solo.

Parole chiave: dolore, sofferenza, limite, fragilità, speranza, relazione, cura.

Pain and suffering. Between the fragility of the limit and the strength of hope.

Summary. The reflection on evil, on pain and suffering has always been one of the questions, or rather “the crucial question” in man’s journey. The research for “Why” and for the reasons of the causes of pain and suffering always resounds strongly in the human heart. The knowledge of the meanings of pain, of the different types of human pain, the distinction between symptom-pain and syndrome-pain, as well as the difference between pain and suffering, can introduce the reader to the understanding of the problem of pain. This issue is addressed here with a careful and focussed look at the consideration of the human fact of the limit and fragility (part 1) and the humanizing perspective of the care relationship (part 2). This will provide valuable food for thought for understanding the value of the human competence of proximity, empathetic listening, fraternal and loving care; all essential elements in order to create conditions conducive to a process of daily rebirth that, beyond every limit and beyond every death, allows us to look at life in a new way. The joyful and optimistic perspective of one who now has the full awareness of never being alone anymore.

Key words. Pain, suffering, limit, fragility, hope, relation, care.

La speranza: la relazione di cura

“Chi visita un malato gli toglie un sessantesimo del suo dolore”

(Rabbi ‘Aqiva -bNedarim 39b)

Di fronte ad ogni situazione di dolore e di sofferenza assume la qualità di imperativo morale la ricerca di ogni terapia, rimedio e cura per porre fine a quella esperienza. Rientra nel campo dei diritti/doveri dell’uomo la necessità di combattere il dolore e la sofferenza in ogni modo. Già a livello di Carta costituzionale (art. 32), così come a livello dei codici deontologici medico (art. 3) e infermieristico (artt. 3 e 4) e di Carte dei diritti del paziente e dell’uomo morente (come quella della Fondazione Floriani o quella etica di Berlino), è insistente e decisa la voce che dà ampio risalto al diritto di non soffrire e al dovere di garantire il sollievo dal dolore e dalla sofferenza in ogni caso. Ma anche a livello normativo, la questione è ratificata dalla legge n. 38 del 2010, il cui principale obiettivo è quello di garantire a tutti i cittadini l’accesso alla terapia del dolore e alle cure palliative attraverso la creazione di una strategia efficace per lo scambio e la comunicazione dei dati nonché attraverso la formazione e l’educazione a questa sensibilità nei confronti del dolore e della sofferenza anche mediante la semplificazione dei percorsi che permettano l’accesso alla terapia del dolore e alle cure palliative.

A partire da questo dato, diventa urgente e necessario, nonché moralmente rilevante, realizzare tutte le condizioni perché si verifichi quell’incontro efficace e virtuoso tra il diritto a non soffrire e il dovere di combattere il dolore e la sofferenza.

L’unica soluzione possibile per l’uomo (oltre ogni forma di terapia medica analgesica) di fronte all’esperienza del male, del dolore e della sofferenza, si trova nel mantenimento e nella cura della relazione viva, vera e autentica: con sé stesso, con l’altro, con Dio.

Superato il percorso traballante e fuorviante del tentativo di comprendere a tutti i costi il mistero del dolore e del male, resta solamente la realtà della relazione e della relazione di cura.

Ogni uomo, ogni donna, ha sempre la possibilità e il diritto di coltivare una speranza; pur dall’interno della più inconfessabile e indicibile esperienza di male e di dolore c’è sempre la possibilità di scorgere una luce, la luce di una speranza nuova, un orizzonte di senso che può schiudersi e illuminare l’oscurità di ogni abisso in cui può essere sprofondata la realtà della vita umana. Ma sembra che una condizione sia necessaria e indispensabile perché ciò accada: la non solitudine, la presenza dell’altro, vicina, calda, la prossimità dell’uomo che, senza condizioni previe, sia disposto ad accogliere e a custodire con la sua presenza l’umanità di chi soffre. La speranza, strumento vitale e prezioso per la vita di ogni uomo, fa da sfondo e da motivazione all’agire dell’uomo, di ogni uomo. Secondo Talete “la speranza è il solo bene che è comune a tutti gli uomini, e anche coloro che non hanno più nulla la possiedono ancora”. Poter coltivare ancora e comunque in cuor proprio una speranza rappresenta la forza più grande contro la paura del dolore, della solitudine e della morte; quella forza capace di trasmettere ogni volta all’uomo l’energia e il motivo necessari per rialzarsi e “risorgere” dopo ogni caduta e continuare a vivere.

Ecco che ritorna dunque il tema forte della relazione di cura quale unica soluzione possibile per affrontare la sofferenza e gestire l’esperienza del dolore. E quando si parla di relazione si parla di presenza nel tempo, di compagnia fedele, di affidamento e di dono reciproci.

A questo punto del nostro percorso, che contempla la dignità della vita umana a partire dalla dimensione di fragilità della stessa soprattutto nell’ambito delle manifestazioni legate alla malattia, al dolore e alla sofferenza conseguente, è opportuno ricordare come alla base e sullo sfondo di questa problematica non debba mai mancare la forza di un discernimento etico che faccia emergere il valore di una riflessione sull’etica della cura.

Ma cosa si intende per etica della cura? Si potrebbe partire già dal tentativo di dare una corretta definizione dei termini di questo concetto: etica e cura. L’etica (dal latino ethos, norma, fenomeno morale) rappresenta l’esigenza dell’uomo di conoscere sempre meglio i dati morali perché il proprio agire sia un agire morale che coincida sempre più con le attese e gli orizzonti della sua ricerca e del suo desiderio attraverso un’opera di discernimento continuo che sia capace di indicare dove e cosa sia il bene e dove e cosa sia il male e cercare in sé ogni volta le motivazioni per operare la scelta conseguente.

Il termine cura (dal latino cura) potrebbe semplicemente essere definito come «atteggiamento premuroso e costante verso qualcuno o qualcosa»1.

Pertanto, il processo del discernimento sull’etica della cura dovrebbe consistere in una riflessione permanente volta a individuare ogni volta i valori in campo e a far proprie le ragioni, le modalità e le finalità del processo di cura che si vuole mettere in atto.

A tal fine, sarebbe proficuo, accingendosi a pensare ad un percorso di cura, fare i conti con quella realtà dialettica tra deontologia e teleologia, specifica della teoria filosofica nonché bioetica, nel tentativo di riuscire a risolvere puntualmente in noi stessi il problema del saper trovare il giusto equilibrio tra il rispetto della norma deontologica e quello della prospettiva teleologica. Ciò non significa altro che, se il rispetto nei confronti dell’atteggiamento deontologico da osservare considera quale valore assoluto da promuovere sempre, al di là della vita e della morte, l’uomo, la sua dignità, la sua umanità, allora l’ossequio a questo imperativo deontologico ci permette di assumere e far proprio quell’atteggiamento teleologico che ci obbliga a considerare sempre la portata delle conseguenze che il nostro agire determina nei confronti della norma base, deontologica appunto, cioè l’uomo. In sostanza, assunto come dato morale fondamentale e deontologico che il valore primo da osservare è l’uomo, sarà sempre necessario chiedersi, di fronte ad ogni opzione possibile, ad ogni scelta di campo, quali saranno le possibili ricadute di questa sulla realtà prima da difendere, cioè sulla dignità dell’uomo. La migliore coincidenza fra dato deontologico e dato teleologico realizza poi quella indispensabile coerenza tra atteggiamento e comportamento che è alla base del corretto agire morale.

Una simile riflessione, portata e condotta nell’ambito della cura dell’uomo sofferente e vittima del dolore non può che dare i frutti sperati, quelli che ogni uomo e ogni donna desiderano per sé, quelli della relazione di cura.

Se ci facciamo caso, andando in profondità e in linea con tutta la riflessione filosofica e morale, (a partire dall’epoca ellenistica-platonica, in cui il termine epimeleia definiva la cura come attenzione, sollecitudine, occupazione, ecc., passando per Aristotele, Cartesio, il postmodernismo del ‘900), la cura consiste sempre, come dice Heidegger, in un prendersi cura di, in un aver cura di; cioè, la cura, sempre con Heidegger, «è in sostanza lo star da presso benevolo a se stessi, agli altri, al mondo. È lo star presso che guarisce dal negativo» (p. 34)2.

Ma questa estensione della definizione di cura ci introduce al concetto che è al cuore della cura: la relazione. La definizione di cura su descritta parla di un atteggiamento che non è altro che la disposizione di una persona in rapporto a qualcuno o a qualcosa; il disporsi a sua volta implica una relazione. L’aspetto più evidente che emerge da quanto detto è che la cura consiste innanzi tutto nell’andare verso o nell’essere presso qualcuno o qualcosa con impegno e attenzione. Pertanto, relazione, impegno e attenzione sono i tratti distintivi della cura.

Dunque, poiché la cura ha strettamente a che fare con la relazione, di conseguenza si configura come un aspetto ontologico della vita umana. Secondo la bioeticista Sara Brotto, «la cura è perciò un’attitudine e una pratica morale che informa il complesso delle nostre abilità e capacità interpersonali, siano esse quelle rigorose del pensiero, quelle delle emozioni e dei sentimenti, o quelle meramente pratiche. Tutto di noi è implicato nella relazione, perché noi siamo tutto in relazione ad altri, di qualunque etnia o gruppo essi siano» (p. 160)2.

Pertanto, nella relazione uomo-uomo è già insita la possibilità della cura e del sollievo dal dolore. La relazione interumana, in cui ogni aspetto è considerato e accolto con pazienza e compassione, è così all’origine della speranza dell’uomo.

Uno degli ambiti in cui il concetto di cura dell’uomo sofferente e nel dolore è considerato ed espresso nella sua pienezza è quello delle cure palliative. In questa dimensione è sempre necessario porre l’accento sul senso della cura che si propone; è necessario maturare e sviluppare sempre più la consapevolezza che la cura vera e propria è quella che ha l’obiettivo di custodire e proteggere l’umanità e la dignità dell’uomo sofferente al di là di ogni terapia, sempre e in ogni modo, soprattutto nell’ultima fase della sua esistenza. In questo percorso è fondamentale la comprensione, da parte di tutti i protagonisti della storia, che la centralità del rapporto tra operatore e paziente trova il suo fondamento e la sua ragione nella cura (nel desiderio di curare l’altro, di avere cura dell’altro) e ha come sostanza tutto ciò che servirà ad avvolgere e custodire il paziente col mantello (pallium) della pazienza e della compassione. Ciò vuol dire in primo luogo avere il coraggio di addentrarsi in quel sentiero, attraente ma ricco di imprevisti ed incognite, già collaudato ma sempre nuovo, in cui è fondamentale vestirsi di ogni umiltà per reimparare ogni volta la maniera migliore e più adeguata di stare accanto al fratello o alla sorella che in quel dato momento si presenta con tutto il suo carico di dolore e di sofferenza.

È necessario, a questo punto, cercare di capire quali siano le modalità con cui si può “stare” accanto all’uomo che soffre, come potersi confrontare con l’essere umano immerso nel dolore, come riuscire a declinare, nella concretezza pratica della vita vissuta, le conclusioni che provengono dalla riflessione sull’etica della cura e sulla consequenziale necessità di un approccio che sia ispirato alla realtà della relazione di cura. In primo luogo, è opportuno legare la riflessione sull’etica della cura alla riflessione sull’etica del dono. Perché è in primo luogo nella realtà gratuita e genuina del dono che si incarna la relazione di cura. La cura, la relazione, la prossimità sono livelli di espressione umana intrinsecamente correlati con la realtà del dono. Il dono è una realtà di reciprocità gratuita in cui la presenza dell’uomo si manifesta pienamente in tutta la sua competenza di (o in) umanità, una realtà che «s’allieta del prossimo, senza nulla esigere da esso» (p. 37)3.

Strettamente correlata al concetto di dono di sé è la realtà della cura e della relazione di cura il cui processo applicativo si articola lungo le varie dimensioni che ne costituiscono la struttura sostanziale di fondo. A partire dalla considerazione umile della propria impotenza di fronte al dolore, si impara gradualmente a capire che lo sforzo più importante da fare è quello di riuscire a porsi «con il malato, accanto a lui, non sopra e dunque contro» (p. 80)4, mettendo in campo tutte le competenze umane possibili: empatia (necessaria per stabilire un punto di contatto), attenzione (a partire dai dettagli delle situazioni), capacità di intercettare i bisogni e i desideri dell’altro, desiderio di estrarre l’uomo dalla sua dimensione di sola sofferenza e dolore ricordandogli la sua dignità di uomo e valorizzandone la sua specificità attraverso il riconoscimento della sua peculiare identità; capacità e competenza comunicativa (verbale e non verbale, perché una comunicazione buona, efficace, non aggressiva e coinvolgente, che genera fiducia, fa parte integrante del processo di cura) attraverso la ricerca della sapiente alternanza dei momenti della parola con gli spazi del silenzio così come attraverso lo sviluppo della capacità feconda del contatto fisico (dalla benevolenza di un sorriso donato al coraggio di una carezza offerta con lo scopo di stimolare risposte positive mediante un contatto confortante, rassicurante, confermante che sia capace di risvegliare, anche all’interno di una realtà di dolore, la percezione della propria integrità, la riconferma del valore, della dignità, dell’unicità della propria persona). Ma ancora, creatività, originalità, sviluppo delle capacità di coinvolgimento, affidabilità, cura della bellezza (di quella bellezza che è già cura), pazienza, disponibilità, presenza e prossimità, comprensione, compassione, coraggio.

In un autentico percorso di cura, nulla è scontato, nulla è banale, tutto è importante e ogni azione, anche la più piccola e nascosta, può ritrovare il suo senso nel momento in cui è capace di produrre nella persona sofferente un aumento delle risposte positive sostenendo la sua vulnerabilità fisica ed emotiva e generando fiducia.

È evidente che per realizzare tutto ciò di cui sopra sia necessaria la disponibilità anche a fermarsi e a formarsi, laddove ciò equivale al saper acquisire la capacità di mantenersi sempre vigili su se stessi, di vivere con spirito agile e sguardo vigile e sobrio, in maniera da saper accettare e riconoscere con umiltà quando è il caso di rallentare, di fermarsi se è il caso, per rivedere e riplasmare alcuni atteggiamenti e comportamenti che potrebbero essere diventati disumanizzanti (magari per fretta, mancanza di tempo, aridità degli automatismi della routine, ecc.) e scongiurare così il pericolo di cadere nelle maglie insidiose dell’abitudine.

Nel dolore e nella sofferenza sopravvive una particolare ed umana esigenza: quella di non ritrovarsi ad essere soli. Ogni uomo sofferente, di qualunque estrazione sociale, fede, etnia, gettata via ogni maschera, apre la mano in cerca di aiuto e di vicinanza umana. Ma a questo punto dovremmo anche chiederci a chi attiene raccogliere questo genere di invocazione, chi deve avere orecchio allenato, attento ad ascoltare il grido di aiuto, e cuore sensibile e pronto nel ricevere e rispondere ad una richiesta di cura e di vicinanza umana. In sostanza, dobbiamo chiederci: chi è responsabile della cura? Possiamo delegare la cura? Abbiamo questo diritto? Ne “I fratelli Karamazov”, Dostoevskij afferma che “Ognuno di noi è responsabile di tutto e di tutti davanti a tutti, e io sono più responsabile degli altri”. Noi, già in quanto uomini ma, per chi si definisce cristiano, anche in quanto credenti nel Dio di Gesù Cristo, non possiamo esimerci dal riconoscere la nostra responsabilità in ordine alla necessità di saper rispondere al meglio a quell’invocazione, a quella umanissima ed essenziale richiesta di non essere lasciati soli, condizione indispensabile per la sopravvivenza di ogni uomo e per vivere anche nel dolore. La relazione è vita, la vita è relazione. La persona, ci dice Sara Brotto, è in primo luogo «una sostanza relazionale e una relazione sostanziale, ossia la sua natura è intenzionale e originariamente relazionale. La cifra della persona è, quindi, una relazione che è sostanza e una sostanza che è relazione» (p. 8)2. E, in riferimento alla cura e alla relazione di cura, afferma quanto segue: «La cura attiene alla relazione; le relazioni di cura sono alla base dell’esperienza umana e della consapevolezza…..Nei momenti di difficoltà, di malattia, di vulnerabilità e alla fine della vita, non avrà importanza quel che si è posseduto o che cosa si è fatto, ma quale è stata e quale è la nostra relazione ad altri, perché ciò è quanto si conserverà nella memoria di coloro che ci saranno accanto e/o che ci sopravvivranno…Tutti dipendiamo dalle relazioni di cura… È la relazione che dà vita… In tal senso, dunque, la cura è il cuore dell’esistenza umana» (pp. 7,9,20)2.

Conclusioni

“Sono un uomo, e nulla di ciò che è umano mi è estraneo”

(Publio Terenzio Afro, Heautontimorùmenos)

Quando il dolore diventa totale, assumendo esso stesso tutte le caratteristiche di una sindrome vera e propria, trasformandosi così da semplice sintomo a patologia, allora esso acquista anche un’enorme capacità di incidere sulla stessa dignità, e dunque sulla stessa libertà dell’essere umano. Il dolore, che a questo punto si traduce in sofferenza, «atterrisce oppure rivoluziona» (p. 35)5, mettendo così a dura prova tutte le energie dell’uomo che, a seconda del grado di crescita intellettuale, spirituale e morale raggiunto, reagisce in maniera conseguente.

Anche provando a cambiare prospettiva e ad osservare la problematica con lo sguardo della fede cristiana, superata ogni concezione distorta che afferisca alla corrente del cosiddetto dolorismo, non ci si stancherà mai di affermare con fermezza che il dolore è scandalo per l’uomo, così come lo è per il Dio dei cristiani che, nel Figlio, ha sempre combattuto e affrontato con decisione ogni occasione e realtà di male, di dolore e di sofferenza, considerati sempre come una grave minaccia per l’integrità e l’identità stessa dell’uomo. Il Dio di Gesù Cristo è il Dio della vita, del bene, dell’amore, della pace, della giustizia e della liberazione e sempre invita l’umanità a resistere e a combattere il dolore e la sofferenza. Infatti, «la sofferenza non ha valore in sé. Essa destruttura e disumanizza. Apre una falla in tutte le relazioni e innanzitutto all’interno di sé stessi. Trascina verso il basso più che verso l’alto» (p. 60)6. Pertanto, ogni affermazione di tipo doloristico rientra perfettamente nell’ambito della bestemmia. Almeno per chi si identifica cristiano, dunque appartenente al Cristo morto e risorto, la gloria di Dio è nella vita e non nella morte, nell’unità e non nel disfacimento, nella gioia libera dell’uomo e non nelle maglie della coercizione di una tristezza senza luce. Il valore in gioco qui è la stessa immagine del volto di Dio e quindi del volto dell’uomo. L’uomo è fatto per la vita e per il bene e questa, in una dimensione di fede ma non solo, è la sua attesa, il suo orizzonte luminoso.

E allora, che fare? Di fronte alla sofferenza, l’unica via d’uscita sta nel contrasto, con tutti i mezzi a disposizione, di quello che ne rappresenta il suo effetto principale e nefasto: la solitudine. E, se per alcuni la reale e percepita presenza di Gesù quale amico che si fa compagno di viaggio sostenendo e portando l’uomo nella sua sofferenza, è già promessa e realtà di consolazione, sicuramente per ogni uomo è nella prossimità fedele, compassionevole e “umana” dell’altro uomo la possibilità di trovare riposo e custodia rispetto agli insulti del dolore. È necessario attrezzarsi in tempo per riuscire a capire, al momento opportuno, cosa farne della propria esperienza di dolore.

Quando ogni realtà è intrisa di dolore e ci si sente impotenti di fronte ad esso, allora l’unico rimedio possibile è quello dell’abbandonarsi, dell’affidarsi, dello spogliarsi di ogni propria certezza per lasciarsi andare, fiduciosi, nelle braccia compassionevoli della cura dell’altro. Ma per far questo c’è bisogno che l’uomo, che ogni uomo, di ogni tempo e di ogni luogo, si decida a vivere la sua vita crescendo ed evolvendosi in umanità secondo quelli che si potrebbero definire i tre pilastri della umanizzazione dell’uomo: la conoscenza, la pazienza e la compassione. La conoscenza, che si nutre di sana curiosità e di dubbio, informa e fa crescere la sapienza, impegnandoci nella via della giustizia e insegnandoci la tolleranza in una dimensione di profonda e vera apertura nei confronti di ogni altro essere umano che si presenti al nostro cospetto; la pazienza che ci immette sulla via della verità e dell’accoglienza benevola e incondizionata; la compassione, che ci rende liberi immettendo a sua volta l’altro che è in relazione in un percorso di liberazione e di riconciliazione con se stessi, con il mondo e con gli altri. La sinergia delle tre realtà nel percorso esistenziale non fa altro, poi, che creare la più solida base per la nascita, ogni volta, della pace del cuore.

Investiti di una simile responsabilità, allora sarà possibile fare, con buona sapienza, il grande passo che ci può permettere di varcare lo spazio del dolore e della sofferenza per entrare in quella dinamica di relazione di cura “con quella infinita delicatezza umana e con quella grande sensibilità spirituale” (p. 85)4 che può sconfiggere ogni solitudine nell’imprevedibile e difficile percorso attraverso il male.

Con questa rinnovata umanità, allora sarà possibile, anche dal fondo dell’abisso di ogni dolore e di ogni sofferenza, sperimentare la bellezza di una nuova forza, di una nuova energia che, dal profondo della nostra interiorità ci possa parlare ancora di bellezza e di bene, di fiducia e di gioia, di amore e di pace. E che ci restituisca la capacità di sperare risvegliando nel cuore il desiderio e la voglia di celebrare, ancora una volta e oltre ogni dolore, la liturgia della vita.

Conflitto di interessi: gli autori dichiarano l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

1. Sabatini-Coletti. Dizionario della Lingua Italiana. Milano: Rizzoli Larousse, 2020.

2. Brotto S. L‘etica della cura. Salerno: Orthotes Editrice, 2013.

3. Maurice Bellet. Il corpo alla prova. Milano: Servitium Editrice, 2007.

4. Bianchi E, Manicardi L. Accanto al malato. Magnano (BI): Edizioni Qiqajon, 2000.

5. Scardicchio AC. La ferita che cura. Otranto (LE): Anima Mundi Edizioni, 2020.

6. Chenu B. Dio e l’uomo sofferente. Magnano (BI): Edizioni Qiqajon, 2005.


2 “Le disposizioni anticipate di trattamento (DAT), comunemente definite testamento biologico o bio-testamento, sono regolamentate dall’art.4 della Legge 219 del 22 dicembre 2017” (…).