La dimensione relazionale dell’autodeterminazione:
il punto di vista giuridico

ELISABETTA PULICE

Laboratorio dei Diritti Fondamentali, Collegio Carlo Alberto, Torino; Facoltà di Giurisprudenza, Università di Trento

Pervenuto il 29 agosto 2022. Accettato il 23 novembre 2022.

Riassunto. Partendo dalla riflessione interdisciplinare sull’autodeterminazione il presente contributo mira a contestualizzare gli spunti di riflessione emersi – in particolare la dimensione relazionale del diritto all’autodeterminazione – nel quadro giuridico di riferimento e di riflettere su alcune delle sfide che la piena tutela del diritto all’autodeterminazione tuttora pone dal punto di vista etico, professionale e giuridico.

Parole chiave. Autodeterminazione, diritti fondamentali, pluralismo, fine-vita, conflitti di coscienza.

The relational dimension of self-determination: a legal point of view.

Summary. This contribution aims to analyse the issues raised by the interdisciplinary analysis - and especially the relational dimension of the right to self-determination - within the legal framework and to address some of the challenges that the full protection of this right still raises from an ethical, professional and legal point of view.

Key words. Self-determination, fundamental rights, pluralism, end-of-life issues, conflicts of conscience.

Un elemento emerge con chiarezza dal presente confronto interdisciplinare: la dimensione relazionale dell’autodeterminazione. L’accento su tale dimensione, pur in assenza di un coordinamento preliminare tra i relatori, era risultato evidente già in tutte le relazioni della sessione dedicata alle scienze umane in occasione del XXVI Congresso Nazionale SICP (2019), di cui in questa pubblicazione si ripropongono gli elementi essenziali. Proprio su questo elemento comune, che ha stimolato il confronto anche dopo il convegno, si basano le riflessioni nella prospettiva filosofica, psicologica e antropologica, cui si affianca ora quella del presente contributo. Quest’ultimo ha il duplice obiettivo di contestualizzare gli spunti di riflessione fin qui emersi nel quadro giuridico di riferimento e di riflettere su alcune delle sfide che la piena tutela del diritto all’autodeterminazione tuttora pone dal punto di vista etico, professionale e giuridico.

Come noto, il riconoscimento e la tutela della scelta libera e autonoma della persona nelle questioni relative alla propria esistenza hanno acquisito crescente rilevanza giuridica sul piano sia nazionale sia internazionale. Nell’ordinamento italiano, oltre a essere tutelato costituzionalmente, il diritto all’autodeterminazione è stato inserito, come autonomo principio fondamentale, tra i presupposti della già citata legge 219 del 2017 in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento.

Ciò nonostante, l’ampiezza e i limiti dell’autodeterminazione suscitano accesi dibattiti in molti ambiti in cui il diritto si interseca con la medicina e le scienze umane. Ciò vale sia nella fase di formazione della disciplina normativa sia nella declinazione dei principi giuridici nella pratica clinica, assumendo peculiare rilevanza nelle scelte alla fine della vita. I tempi, lunghissimi, che hanno portato all’approvazione della legge n. 219/17, i costanti dibattiti legati alla sua applicazione, nonché le attuali difficoltà per l’approvazione di una normativa sull’aiuto medico a morire lo confermano.

Si tratta, infatti, di un ambito delicato nel quale variabili relazionali, culturali e sociali incidono su processi decisionali spesso già molto complessi da un punto di vista etico e giuridico.

Le prospettive di analisi antropologica e psicologica hanno reso evidente l’importanza della dimensione relazionale – sottolineata con interessanti spunti di riflessione già dai contributi filosofici – anche nella concretezza del rapporto di cura: processi decisionali nei quali i concetti di autonomia e autodeterminazione si pongono, e devono essere intesi e affrontanti, in chiave dinamica e relazionale, tanto per la persona assistita quanto per i professionisti sanitari che compongono l’équipe di cura.

Quali risposte, quindi, dà, può o dovrebbe dare il diritto?

Prima di affrontare le questioni più strettamente legate al rapporto di cura, è importante considerare un ulteriore aspetto emerso dal confronto interdisciplinare e richiamato, in particolare, dal contributo di Matteo Galletti. Un profilo che in questa sede, dal punto di vista giuridico, potremmo ridefinire come il rapporto tra le libertà del singolo e gli altri diritti e libertà costituzionalmente garantiti.

Il rispetto dei diritti di libertà è, infatti, regola di fondo degli Stati costituzionali di diritto, caratterizzati dalla forma di Stato di derivazione liberale. L’interazione tra i principi personalista e pluralista ne definisce i fondamenti: poiché “la Costituzione è di tutti”1, le scelte in materia di diritti devono garantire l’esercizio differenziato dei diritti di libertà di ciascuno e, quindi, la democratica coesistenza di posizioni, concezioni di vita e visioni del mondo diverse e plurali.

Ciò, provando a sintetizzare, significa (almeno) due cose.

Secondo la concezione più diffusa nelle tradizioni giuridiche occidentali2, i diritti e le libertà non sono assoluti, ma a determinate condizioni possono (o devono) essere bilanciati con altri diritti, libertà, interessi meritevoli di tutela. Negli Stati di derivazione liberale sono però le limitazioni e i divieti statali alle libertà a dover trovare una ragionevole giustificazione per essere legittimi, non viceversa. Tali giustificazioni possono essere, ad esempio, la tutela di altri diritti fondamentali o interessi della collettività, ma la loro legittimità deve fondarsi su uno scrutinio di proporzionalità e ragionevolezza3. Affinché il limite posto a una libertà fondamentale (come, ad esempio, l’autodeterminazione individuale) possa essere legittimo, tale limitazione deve innanzitutto essere necessaria a tutelare un altro diritto o interesse meritevole di tutela costituzionale. La limitazione per essere proporzionata, e quindi giustificata, deve inoltre consistere nella misura che meno interferisce con la libertà in questione, tra quelle idonee a realizzare l’obiettivo di tutela prefissato. La limitazione non può però in ogni caso comprimere il nucleo essenziale di tutela della libertà o del diritto in gioco.

Del principio pluralista, dei diritti di libertà come regola di fondo e del delicato bilanciamento tra beni di rango costituzionale, il legislatore deve necessariamente tenere conto nell’intervenire sulle scelte di fine vita, unitamente alle ben note, e già ampiamente discusse in dottrina, questioni sollevate dalla decisione della Corte costituzionale, che nel dichiarare non conforme a Costituzione il divieto assoluto di aiuto al suicidio ha individuato un’area di non punibilità per tale aiuto e sollecitato l’intervento del, tuttora inerte, Parlamento.

Le difficoltà interpretative e applicative della sentenza, i profili di potenziale discriminazione legati alle condizioni di salute della persona, i noti rifiuti da parte di alcune strutture sanitarie sono solo alcuni degli esempi di un’incertezza che, in assenza di un adeguato intervento legislativo, incide negativamente sulla tutela dell’autodeterminazione della persona, impedendo allo stesso tempo la corretta definizione dei ruoli e delle responsabilità dei professionisti sanitari (e delle strutture) coinvolti nella relazione.

Ciò ha inevitabili ricadute su tutta la rete relazionale a supporto della persona.

Le controversie e i dibattiti che hanno caratterizzato il rifiuto e l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale prima dell’entrata in vigore della legge n. 219/17 hanno già ampiamente dimostrato non solo come il ritardo e l’incertezza del diritto incidano negativamente sulla tutela dell’autodeterminazione, sull’autonomia e responsabilità dei professionisti, ma anche come tutto ciò esasperi i conflitti etico-professionali, ostacolando la costruzione dei percorsi relazionali virtuosi necessari per rispondere alle esigenze e alle complessità analizzate nei contributi psicologico, antropologico e filosofici.

Per questo non è più rimandabile un intervento legislativo sull’aiuto medico a morire4.

Per quanto riguarda, invece, il rifiuto e l’interruzione dei trattamenti sanitari di sostegno vitale, la legge è intervenuta consolidando molti dei principi già espressi dalla giurisprudenza sulla base della Costituzione. La legge ha risolto, almeno sul piano formale, i dubbi legati all’ampiezza dell’autodeterminazione (diritto di rifiutare ma anche di interrompere “qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso”, inclusi quelli “necessari alla propria sopravvivenza”, art. 1 co. 5); alla responsabilità del medico (dovere di rispettare la volontà del paziente ed esenzione da responsabilità civile e penale, art. 1, co. 6); alla natura della nutrizione e idratazione artificiale come trattamenti sanitari, quindi rifiutabili (art. 1, co 5); alla validità della volontà anticipatamente espressa dal paziente non più in grado di esprimerla (disposizioni anticipate di trattamento - DAT, art. 4 e pianificazione condivisa delle cure, art. 5).

Per quanto più interessa questo contributo, gli strumenti a tutela dell’autodeterminazione (diritto di sapere e di non sapere e conseguente dettagliato dovere di informazione da parte dei professionisti sanitari; diritto a un’appropriata terapia del dolore e alle cure palliative e corrispondente dovere del medico di avvalersi “di mezzi appropriati allo stato del paziente”, adoperandosi “per alleviarne le sofferenze, anche in caso di rifiuto o di revoca del consenso al trattamento sanitario”; DAT; pianificazione condivisa delle cure, ecc.) sono collocati dalla stessa legge in una dimensione relazione fondata sulla fiducia.

Alla relazione di cura è dedicato l’articolo con cui si apre la legge, che, è bene ricordarlo, è una normativa “in materia di consenso informato” con applicazione, quindi, più ampia rispetto alle scelte di fine vita.

La legge contiene, al secondo comma del primo articolo, riferimenti essenziali ai rapporti e percorsi relazionali analizzati nei contributi psicologico, antropologico e filosofici. È innanzitutto “promossa e valorizzata” la relazione che è “di cura e di fiducia” tra il paziente e il medico. Tale relazione “si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico”. La relazione di cura può coinvolgere, con il consenso del paziente “i suoi familiari o la parte dell’unione civile o il convivente ovvero una persona di fiducia del paziente medesimo”. A tale relazione si associa, per il caso in cui la persona non fosse più in grado di esprimere la propria volontà, la figura del fiduciario, che può essere nominato dal paziente.

Il rapporto medico-paziente non esaurisce però la dimensione relazionale presa in considerazione dalla legge poiché “contribuiscono alla relazione di cura, in base alle rispettive competenze, gli esercenti una professione sanitaria che compongono l’equipe sanitaria” (art.1 co. 2). L’intera équipe deve, ad esempio, attenersi alle disposizioni della pianificazione condivisa delle cure (art. 5 co. 1) e la valorizzazione dell’elemento multiprofessionale emerge anche nel richiamo all’assistenza psicologica nelle scelte di rifiuto o interruzione di trattamenti di sostegno vitale (art. 1 co. 5).

È proprio nella relazione di cura, nel rapporto con l’équipe curante che si definiscono l’ampiezza e la concretezza della tutela dell’autodeterminazione attraverso la corretta e compiuta applicazione dei principi e degli strumenti previsti dalla legge. È nella relazione di cura, quindi, che può essere valorizzata (ma anche limitata) la costruzione dinamica del consenso che emerge dalla normativa e la cui importanza si evince, in prospettive diverse, anche dai contributi precedenti.

Ed è proprio nella declinazione nella pratica clinica dei principi previsti dalla legge che tuttora emergono conflitti e incertezze. La legge, infatti, anche quando interviene – e al netto di possibili incertezze interpretative sulle quali non è possibile soffermarsi in questa sede – è per definizione generale e astratta. Non può, quindi, disciplinare nel dettaglio la variabilità di ogni caso concreto, l’incertezza e la complessità di scelte eticamente e professionalmente complesse.

Rimane inevitabilmente un margine di incertezza che può generare conflitti – intesi non necessariamente nel senso di controversia legale, ma come divergenze di posizionamento etico e professionale – derivanti dalla complessità intrinseca dell’attività medica e dai diritti e posizioni morali sulle quali incide.

Cosa accade, quindi, in caso di divergenza tra la scelta del paziente e l’autonomia professionale del medico? Cosa accade in caso di divergenze all’interno dell’équipe sanitaria?

Il Laboratorio dei Diritti Fondamentali (LDF) di Torino diretto da Vladimiro Zagrebelsky ha condotto a partire dal 2017 una ricerca interdisciplinare (analisi antropologica e giuridica) sul pluralismo etico e i conflitti di coscienza nell’attività ospedaliera5.

Attraverso interviste ai professionisti sanitari sono stati affrontati casi “difficili” e situazioni di confine (nel confronto tra autodeterminazione e autonomia professionale e nei rapporti inter e infra-professionali), in cui l’équipe e i singoli professionisti sono stati chiamati a confrontarsi con processi decisionali complessi e si sono interrogati (come individui e come reparto) sul proprio posizionamento etico. L’approccio interdisciplinare che ha caratterizzato sia il gruppo di ricerca sia il rapporto con i professionisti intervistati ha permesso di riflettere sull’applicazione della normativa nella concretezza della pratica clinica in molti degli ambiti analizzati, tra cui le scelte di fine vita.

In ogni ambito è emerso con chiarezza come la complessità e variabilità dei casi concreti non trovino risposte univoche, valide in ogni contesto.

Dal punto di vista giuridico e professionale la complessità è data dal fatto che il bilanciamento adottato dal legislatore richiede l’intervento di un professionista per essere attuato. Ogni professionista si inserisce però nel quadro giuridico di riferimento portando con sé una pluralità di fattori: una posizione di garanzia, che comporta specifiche forme di responsabilità nei confronti del paziente; vi entra inoltre come persona con proprie convinzioni morali; come inscritto a un ordine professionale che esprime regole deontologiche cui attenersi; come dipendente della struttura sanitaria, soggetto a vincoli posti a garanzia dei diritti che la struttura ha il dovere di tutelare.

Ciò significa che sono molteplici le dimensioni che si intersecano nel rapporto con l’autodeterminazione del paziente: quella delle competenze tecnico-scientifiche dell’autonomia professionale fondata sulle prove d’efficacia elaborate dalla comunità scientifica; quella delle convinzioni personali; quella collettiva dell’équipe multiprofessionale; quella della riflessione etico-professionale, ecc.

Com’è noto, un ambito delle scelte di fine vita nel quale emerge una forte difficoltà sul piano morale, nonostante la definizione ed equiparazione sul piano legislativo, è la distinzione tra il rispetto del rifiuto di un trattamento di sostegno vitale e il rispetto della scelta di interromperlo, che implica un’attivazione da parte del medico.

Le interviste della citata ricerca hanno messo in luce una varietà di approcci. In alcuni casi la richiesta di interruzione è ritenuta sostanzialmente non accettabile dal reparto nonostante il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione, attraverso un approccio definibile “sì, ma no”5: sì, ma non in questo reparto, sì ma non ora. Le difficoltà, individuali e/o di équipe, rischiano così di paralizzare l’adozione di decisioni in grado di tutelare pienamente l’autodeterminazione del paziente. In alcuni casi può emergere un uso che potrebbe risultare “difensivo” della pianificazione condivisa delle cure per evitare che iniziare un trattamento porti poi alla difficile decisione (del tutto legittima, però, sul piano giuridico) di interromperlo.

In altri casi l’approccio è tendenzialmente aperto alla piena attuazione della scelta del paziente, con livelli crescenti di capacità di gestire le difficoltà etiche e i possibili conflitti sulla base di alcuni fattori comuni a molte esperienza analizzate.

Innanzitutto, l’investimento di tempo ed energie nella comunicazione necessaria a creare percorsi virtuosi di gestione dei conflitti, anche grazie al coinvolgimento di tutte le competenze professionali dell’equipe. Un più capillare e consapevole utilizzo della pianificazione condivisa delle cure, ancora non così diffusa, consente di sfruttare al meglio le potenzialità di uno strumento che, laddove applicabile, permette di costruire, a differenza delle DAT, la volontà del paziente su informazioni specifiche all’interno di una relazione di cura e fiducia già instaurata.

Nei contesti che più facilmente gestiscono possibili divergenze su scelte eticamente controverse emerge però un ulteriore elemento importante: l’esistenza di una pregressa condivisione nell’equipe delle reciproche posizioni e difficoltà, che permette di avviare percorsi che si rivelano poi già sufficientemente solidi nel momento in cui è necessario adottare scelte complesse.

È evidente, quindi, come la “cultura di reparto” possa incidere in concreto sull’attuazione dell’autodeterminazione, con possibili rischi di discriminazione per i pazienti in ragione della struttura o del reparto nel quale sono in cura.

Benché la collegialità delle decisioni sia comune a quasi tutte le realtà analizzate e i percorsi di gestione dei conflitti siano necessariamente legati alle caratteristiche delle singole realtà, una disciplina normativa che preveda, come avviene in alcuni ordinamenti, una procedura collegiale per le decisioni più complesse e controverse permetterebbe di definire almeno alcuni elementi essenziali per evitare la solitudine nelle decisioni e favorire la costruzione di una visione condivisa della cura. Tale collegialità, inoltre, dovrebbe essere prevista e costruita in maniere necessariamente multiprofessionale.

Anche la sensibilità delle categorie professionali potrebbe dare un contributo significativo.

Interessante da questo punto di vista la previsione del codice deontologico degli infermieri espressamente dedicata ai “dilemmi etici” (art. 5): “l’infermiere si attiva per l’analisi” di tali dilemmi “e contribuisce al loro approfondimento e alla loro discussione. Promuove il ricorso alla consulenza etica e al confronto, anche coinvolgendo l’Ordine Professionale”. Includere nei doveri deontologici anche questi profili esprime una visione costruttiva dei conflitti come occasioni di confronto e individuazione di strategie comuni che anche il codice di deontologia medica e quelli delle altre professioni coinvolte nelle relazioni di cura potrebbero adottare.

A ciò deve aggiungersi l’attenzione alla formazione di tutti i professionisti sulla legge 219/17 e sulle questioni di fine vita. L’informazione alla collettività su tali principi e strumenti, anche con riferimento a quelli ancora poco utilizzati come le DAT, è altrettanto importante. La pianificazione condivisa delle cure, dove possibile, può costituire un tassello rilevante della relazione di cura in grado di favorire quei percorsi di costruzione dinamica e relazionale del consenso la cui necessità emerge anche dai contributi precedenti.

Va infine ricordato un elemento essenziale. Le dimensioni relazionali menzionate in questa riflessione, tanto quelle legate alla rete relazionale del paziente quanto quelle dell’equipe sanitaria e le reciproche influenze, non possono essere prese compiutamente in considerazione se non nel contesto organizzativo nel quale sono inserite. La struttura sanitaria ha infatti una specifica doverosità organizzativa nella tutela degli interessi pubblici cui è preordinata la sua azione.

Ciò significa non solo che deve garantire l’esercizio del diritto all’autodeterminazione in tutti gli ambiti previsti dalla legge, ma deve altresì adottare gli accorgimenti organizzativi e formativi per assicurare l’adeguata attuazione di tutti gli strumenti previsti a tutela della libertà di scelta. Questi strumenti includono quelli necessari a gestire potenziali conflitti, a valorizzare e promuovere concretamente la relazione di cura e a mettere i professionisti nelle condizioni di costruire percorsi a tutela della dimensione dinamica, relazionale e plurale dell’autodeterminazione, anche attraverso quel principio (giuridico e deontologico), tanto difficile da attuare nella pratica quotidiana ma sempre più rilevante, che richiede di considerare il tempo della comunicazione come tempo di cura.

Conflitto di interessi: l’autrice dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

1. Bartole S. La Costituzione è di tutti. Bologna: Il Mulino, 2012.

2. Gardbaum S. The comparative structure and scope of constitutional rights. In: Dixon R, Ginsburg T (eds). Comparative constitutional law. UK: Cheltenham – USA, MA: Northampton: Edward Elgar Pub, 2011.

3. Cartabia M. I principi di ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale italiana. In «Studi della Corte costituzionale», 2013.

4. “Aiuto medico a morire e diritto: per la costruzione di un dibattito pubblico plurale e consapevole” – Documento del Gruppo di lavoro interdisciplinare in materia di aiuto medico al morire reperibile al seguente link https://www.biodiritto.org/Online-First-BLJ/Aiuto-medico-a-morire-e-diritto-per-la-costruzione-di-un-dibattito-pubblico-plurale-e-consapevole

5. Aiuto medico a morire – proposta del Gruppo di lavoro “Undirittogentile”: https://www.personaedanno.it/dA/04d09a1e3a/allegato/PropostaDirittoGentileAiutoMedicoAMorire15.7.pdf

6. Ferrero L, Pulice E, Vargas C. Pluralismo etico e conflitti di coscienza nell’attività ospedaliera. Vol. I - scelte riproduttive e dibattiti sulla genitorialità e Vol. II Le scelte di fine vita. Bologna: Il Mulino, 2021, cui si rinvia anche per ulteriori riferimenti bibliografici sui temi affrontati nel presente contributo..