Vivere il tempo della malattia

Una riflessione interdisciplinare sui modi dell’aver cura

ANTONIO DI SOMMA

Dottorando di ricerca in Etica filosofica, Pontificia Università Lateranense, Roma; Laurea in Filosofia teoretica, Università degli Studi di Napoli Federico II; Perfezionamento in Bioetica, Istituto di Bioetica e Medical Humanities, Roma.

Pervenuto il 2 marzo 2022. Accettato il 9 marzo 2022.

Riassunto. È possibile continuare a vivere in pienezza la propria vita nel tempo della malattia, del dolore e della sofferenza? Oppure il tempo personale si ferma, si paralizza, si frantuma quando irrompe nella vita la malattia? A partire da alcune riflessioni del filosofo tedesco Martin Heidegger è possibile intraprendere un breve confronto interdisciplinare con tali complessi interrogativi. Dinnanzi all’apparire della malattia e al non-manifestarsi della salute nel tempo della cura, la situazionalità emotiva dell’angoscia, tratteggiata in un’accezione del tutto particolare dall’autore tedesco sulla scia della riflessione filosofica kierkegaardiana, non può tuttavia aprire l’esserci autenticamente alla propria temporalità, alla propria esistenza e alla propria vita. Occorre così favorire la risorsa fondamentale della speranza, così come quella dell’amore. Solo nella capacità trasformativa e concreta dell’amore la speranza che sorge anche oggi da relazioni interpersonali autentiche connesse alle pratiche dell’aver cura della vita e della salute può infatti emergere fiduciosa e creativa in tutta la sua profondità e aprire il cuore del tempo e della vita.

Parole chiave: Vita, malattia, relazione, amore, speranza.

Living the time of illness. An interdisciplinary reflection on the ways of taking care.

Summary. Is it possible to continue living one’s life fully in the time of illness, pain and suffering? Or does personal time rather stop, paralyze, shatter when illness bursts into life? Starting from some reflections of the German philosopher Martin Heidegger it is possible to undertake a brief interdisciplinary confrontation with these complex questions. Faced with the appearance of illness and the non-manifestation of health in the time of caring, the emotional situationality of anguish, portrayed in a very particular sense by the German author in the wake of Kierkegaardian philosophical reflection, cannot, however, authentically open the being to its own temporality, to its own existence and life. The fundamental resource of hope must be fostered, as well as that of love. Only in the transformative and concrete capacity of love can the hope that arises even today from authentic interpersonal relationships connected to the practices of caring for life and health emerge confidently and creatively in all its depth and open up the heart of time and life.

Key words: Life, illness, relationship, love, hope.

È possibile continuare a vivere in pienezza la propria vita nel tempo della malattia, del dolore e della sofferenza? Oppure il tempo personale si ferma, si paralizza, si frantuma quando irrompe nella vita la malattia? Secondo la riflessione del filosofo tedesco Martin Heidegger, a partire dalla quale è possibile intraprendere un breve confronto con tali interrogativi, il tempo della salute e il tempo della malattia non sarebbero in effetti che aspetti della temporalità della vita e della cura, e l’esistenza si caratterizzerebbe a partire da due modi principali d’essere assieme nel mondo avente cura degli gli altri e prendentesi cura degli enti che si incontrano nel mondo. L’autore parla infatti di esistenza autentica e inautentica, o anche propria e impropria, a seconda dei «modi»1 del rapportarsi dell’esserci dell’uomo alla cura e alla morte. Quotidianamente l’uomo, secondo l’autore, vive infatti il suo essere temporale nello scadimento del proprio esserci presso l’ente, senza con esso voler tuttavia introdurre alcun giudizio di ordine morale, rifuggendo per lo più il peso dell’esistenza e la consapevolezza del proprio essere per la morte. In tal senso l’esserci ricadrebbe nell’inautenticità del proprio rapportarsi non solo agli enti che si incontrano nel mondo ma in particolar modo all’aver cura degli altri, nonostante l’esserci resti in ogni caso, sempre e comunque, un con-esserci, ovvero caratterizzato ontologicamente dal con-essere insieme agli altri e per gli altri nel mondo. Secondo il filosofo, inoltre, solo attraverso la situazionalità emotiva dell’angoscia (Angst), quale al contempo luogo e vertigine kierkegaardiana della libertà umana dinnanzi al proprio essere per la fine, sarebbe invece possibile quella conversione di pensiero che, conducendo l’esserci dell’uomo dinnanzi alla finitudine esistenziale del proprio essere ne caratterizzerebbe in modo autentico l’aperturalità costitutiva e lo libererebbe anticipatamente per le sue proprie possibilità d’esistenza progettanti, liberanti e autentiche. Tali considerazioni dal carattere primariamente ontologico conservano tuttavia ancora oggi, al di là della loro condivisione sul piano teoretico-pratico e della riflessione critico-operativa, una particolare rilevanza e peculiarità dinnanzi a tutte quelle particolari situazioni patologiche vissute effettivamente come limite e che si sperimentano quotidianamente confrontandosi concretamente, in particolare nei luoghi della cura della vita e della salute, con la sofferenza del proprio e altrui esserci nel tempo della malattia e del dolore. In tali situazionalità fattuali, effettive e al contempo sempre anche emotive e affettive, determinate talvolta nel profondo dalla sofferenza e dall’angoscia, la progettualità, la possibilità concreta della decisione, della libertà e dello stesso vivere personale sembrano infatti sbiadirsi o addirittura dileguarsi insieme all’orizzonte personale e comunionale della speranza. «Come si sente? Come sta?»2, domanda ordinariamente il medico a principio dell’incontro terapeutico, ricorda così il filosofo tedesco, che difatti richiama all’origine di tale interrogazione che dovrebbe segnare, almeno sul piano del linguaggio, il passaggio dal tempo della malattia, dell’incertezza, della solitudine a quello della cura, dell’accompagnamento e della relazione, intese da un punto di osservazione non solo clinico-sanitario, ma anche a partire dalla consapevolezza di dover favorire innanzitutto il mutare stesso dei modi della temporalità situazionale interiore della persona sofferente e in difficoltà. L’uomo infatti esiste e «abita»3 costantemente nella dimensione della cura mentre a sua volta è chiamato instancabilmente all’agire dell’aver cura, un agire intrinsecamente determinato dalla richiesta di sollievo dalla sofferenza, dal dolore e dalla malattia, ma anche parimenti da un tempo vissuto troppo spesso nell’angoscia e nel deserto della solitudine, in una dimensione di chiusura temporale, esistenziale ed emotiva ai molteplici benefici della relazione di cura, alla bellezza correlata alle possibilità, alle decisioni e al progetto stesso della propria vita in quanto sempre e ancora con-essere nel mondo, in cui la possibilità stessa della relazione interpersonale autentica e liberante sembra tuttavia spesso perdersi nel vortice di una temporalità di cura freddo e impersonale. Dinnanzi all’apparire della malattia e al non-manifestarsi della salute quell’angoscia austera dinnanzi alla fine dal carattere liberante tratteggiata dall’autore tedesco sulla scia della riflessione filosofica kierkegaardiana da sola non può difatti bastare ad aprire l’esserci autenticamente alla propria temporalità, alla propria esistenza e al proprio limite. All’apparire della malattia, che secondo l’autore si configurerebbe, questa volta condivisibilmente, in primo luogo come un non-manifestarsi della salute, consegue infatti esperienzialmente un rapido nascondersi della salute stessa e con esso sembra opacizzarsi anche la stessa capacità relazionale della persona sofferente, relazionalità che tuttavia sappiamo come non scompaia mai del tutto poiché correlata al fondamento ontologico di speranza (Hoffnung) che abita nel cuore di ogni essere umano, al di là delle singole speranze e attese, spesso deluse o non conformi all’ideale di vita, di esistenza e persino di cura che ogni essere umano nell’intimo del suo essere personale ricerca costantemente. Il tempo della malattia e del dolore mette così a nudo l’esserci dell’uomo come costantemente caratterizzato emotivamente, intrinsecamente richiamato tuttavia ad aprirsi ogni volta attraverso uno sguardo autentico di speranza sulla vita e l’esistenza che vada a riprendere concretamente l’esserci personale dall’isolamento, dallo spaesamento e dal profondo dell’angoscia nella malattia. La medicina, proprio come la filosofia, è così ancora oggi un cercare che deve configurarsi sempre innanzitutto come un autentico ricercare, in cui in gioco è anche evidentemente in primo luogo il cercante stesso, e in questa direzione un particolare e impegnativo ricercare forme concrete di presa in carico della sofferenza che aprano autenticamente e concretamente alla vita nel tempo della malattia e del dolore. «Una voce ci chiama alla speranza – ha osservato così Heidegger in un passaggio forse poco noto della sua riflessione, aggiungendo ancora che – essa ci fa cenno che possiamo sperare, ci invita alla speranza, ci raccomanda di sperare, ci rinvia alla speranza»4. Si tratta a ben vedere della voce dell’esserci stesso, della voce della coscienza in quanto chiamata autentica all’aver cura dell’altro, di sé, del mondo nel tempo dell’esistenza e della vita, di una chiamata che diviene ancora più forte nel tempo della cura caratterizzato dal non-manifestarsi della salute e dall’apparire della malattia e della sua temporalità caratteristica. L’essere umano è infatti chiamato a vivere esistenzialmente il proprio tempo nella dimensione della cura anche nella malattia e nel dolore, così come nel confronto quotidiano e straordinario con la sofferenza, un tempo che è dunque riflesso del nostro esistere interiore ma anche sempre caratterizzato storicamente. Uno spazio di tempo, quello della malattia, in cui è difficile abitare tuttavia senza liberarsi almeno in parte dai lacci dell’angoscia, della non-accettazione, del rifiuto, della disperazione. L’essere umano nel tempo della sua esistenza condivisa è richiamato difatti ad aver cura anche del tempo, soprattutto di quel tempo che sembra troppo spesso volatilizzarsi e annullarsi dinnanzi al dolore percepito e vissuto nella sua dimensione omnicomprensiva. Il personale di cura, in particolare, è così oggi chiamato a custodire e testimoniare accanto alla persona sofferente innanzitutto quella promessa cardine di sollievo, che non è evidentemente promessa di guarigione, e per tale motivo autentica poiché sinceramente umana e tuttavia sempre intimamente aperta alla speranza che trascende il presente per rinnovarlo concretamente. Favorire la speranza nel tempo della malattia è infatti un agire primario della cura, soprattutto quando la sofferenza raggiunge i suoi vertici. Laddove tutto oggi appare pre-calcolabile il tempo della malattia irrompe senza permesso, ma il non-manifestarsi della salute, soprattutto in condizioni di cronicità o di terminalità della malattia stessa, come l’esperienza delle cure palliative ormai da molti anni insegna, non esclude mai che il tempo della cura continui e persino che si migliori, anche grazie ad un positivo sviluppo tecnico: «una volta – ricorda infatti il filosofo di Friburgo – si chiamava tecnica anche quel disvelare che pro-duce la verità nello splendore di ciò che appare»5. La riflessione ontologica heideggeriana, come è ormai noto, custodisce ancora oggi indirettamente, al di là delle intenzioni stesse dell’autore interessato prettamente alla obliata questione del senso dell’essere, una dimensione valutativa che interroga e interpella l’esserci e l’agire contemporaneo della cura, soprattutto quando si ha a che fare con l’aver cura della salute e le forme di una reale presa in carico quanto più globale della persona chiamata nel suo esistere a vivere il tempo della malattia. L’essere umano è chiamato difatti oggi più che mai a vivere e a far vivere pienamente la propria e altrui esistenza fino al suo naturale compimento, a riservare e «fare spazio»6 autentico all’essere personale, ovvero consentire spazi di libertà, di scelta, di bellezza, di vita ed esistenza autentica alla persona ammalata e sofferente anche e soprattutto durante il complesso e multistratificato tempo della malattia, testimoniando e custodendo una presenza umana di cura, di bellezza, ma anche di amore. Richiamare l’esserci della persona umana dall’angoscia alla speranza nel tempo della malattia e del dolore, attraverso la bellezza e la testimonianza custodita nella stessa presenza della relazione di cura, è infatti espressione di un modo, di un agire e di un credere insieme della cura che ben riconosce il valore della vita e del morire con dignità e con amore. Per vivere realmente il tempo della malattia, del dolore e della sofferenza occorre così forse innanzitutto ricominciare proprio dall’amore (Liebe), dal poter amare, dall’essere in condizione di amare e soprattutto dalla possibilità di restare liberi di amare, fuori-uscendo esistenzialmente, nonostante la presenza connaturale della sofferenza, dalla morsa della situazionalità emotiva dell’angoscia e dal dolore, sia quest’ultimo prettamente fisico che psicologico o anche spirituale. Solo infatti amando e rimanendo nell’amore, un tempo interiore oscuro può farsi ogni volta di nuovo chiaro, lasciando libero l’esserci per la ricerca senza fine delle sue possibilità relazionali nonostante tutti i limiti riscontrabili nelle pratiche e nei luoghi concreti dell’aver cura della vita e della salute. L’interrogativo iniziale si è così dunque trasformato in questa direzione: come è possibile oltrepassare autenticamente la situazionalità emotiva dell’angoscia e aprire l’esserci personale alla speranza nel tempo della malattia? Solo nella capacità trasformativa e concreta dell’amore la speranza che sorge anche oggi da relazioni interpersonali autentiche connesse alle pratiche della cura della vita e della salute può emergere fiduciosa e creativa in tutta la sua profondità e ogni giorno aprire il cuore del tempo e della vita.

Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

1. Heidegger M. Essere e tempo. Milano: Longanesi, 2010.

2. Heidegger M. Seminari di Zollikon. Napoli: Guida, 2000.

3. Heidegger M. Costruire abitare pensare. In Saggi e discorsi. Milano: Mursia, 2014.

4. Heidegger M. Che cosa significa pensare? Carnago: Sugarco, 1996.

5. Heidegger M. La questione della tecnica. In: Saggi e discorsi. Milano: Mursia, 2014.

6. Heidegger M. Corpo e spazio, Genova: Il Nuovo Melangolo, 2000.