Immagini della morte nella musica: comunicare l’indescrivibile

GIORGIO DI MOLA

Medico intensivista, anestesista-rianimatore, Socio fondatore SICP.

Pervenuto e accettato il 15 luglio 2022.

Riassunto. Il tempo è, nella sostanza, coscienza di eventi passati e futuri, fondata su un determinato e momentaneo punto situazionale della nostra vita. Così, la musica – particolarmente nell’accezione di musica “colta” - nel suo dipendere dal tempo e nascere dal silenzio e morire nel silenzio, rispecchia la vita. Allo stesso modo, come rappresentazione delle vicende umane, ci offre in molte composizioni un’immagine della morte, diversa a seconda del tempo storico, in cui è stata concepita e viene ascoltata. In questo contributo vengono presentati alcuni esempi di composizioni che richiamano immagini di morte.

Parole chiave. Musica, tempo, morte.

Images of death in music: communicating what is not describable.

Time is, in essence, awareness of past and future events, based on a specific and momentary situational point of our life. Thus, music - particularly in the meaning of “cultured” music - in its dependence of time and birth from silence and dying in silence, reflects life. In the same way, as a representation of human events, it offers us in many compositions an image of death, different according to the historic time, in which it was conceived and it is heard. This contribution presents some examples of compositions that recall images of death.

Key words. Music, time, death.


Ho rubato il titolo di questa riflessione sulla morte e la musica dalla proposta di un tema ad una conferenza/intervista al critico musicale Michele Mannucci, che incontrai più di vent’anni fa.

L’idea di associare la musica alla vita e alla sua fine non è, certo, originale, ma non è facile rinvenire digressioni compiute sull’argomento, anche se, come credo, sia noto che nell’universo dei musicisti l’associazione sia molto famigliare. Inoltre, data l’enorme popolazione che ama e ascolta la musica – intendendo tutte le forme musicali più o meno “colte” – l’associazione di un’idea musicale con un argomento non di facile approccio come la morte ne può agevolare la sua comunicazione.

Prima di affrontare gli episodi e gli esempi musicali riferibili al nostro argomento, è utile inquadrare l’argomento in termini socioculturali.

La musica è un prodotto dell’uomo con una struttura che non può venire separata dal comportamento che la produce. Vuol dire che, per capire perché una certa struttura musicale abbia assunto una determinata forma, occorre comprendere la cultura alla base dei comportamenti capaci di generare quella particolare forma del suono.
Come nelle altre arti, anche nella musica valori, norme sociali, modi di essere di una cultura vengono presentati nella forma più diretta ed essenziale: la musica è simbolica e riflette l’organizzazione generale della società.

Questo non significa che, data una musica, si possa ricavare la struttura sociale del gruppo che la produce e viceversa, ma significa riconoscere che la musica è prodotta da alcuni individui per altri individui, all’interno di un determinato contesto sociale e culturale. In questo senso costituisce un fenomeno umano unico che si giustifica solo in termini di interazione sociale, nel senso che è composta ed eseguita da alcuni uomini per altri uomini. In breve, la musica non può essere definita soltanto come fenomeno sonoro, poiché presuppone il comportamento di uno o più individui.

Gli antropologi della musica ritengono che questo comportamento possa essere di tre tipi. Il primo è il comportamento fisico: cioè le posture del corpo e l’uso dei muscoli per muovere le dita su una tastiera, far vibrare le corde vocali, muovere il diaframma. Il secondo tipo è il comportamento sociale, suddiviso in comportamento del musicista e del non-musicista. Si osserverà allora che alcuni individui si comportano in un determinato modo solo perché sono musicisti e perché la società ha standardizzato il loro comportamento sia emotivo che fisico. Il terzo tipo è il comportamento verbale che concerne i costrutti linguistici legati al sistema musicale.

Questa brevissima sintesi della forma antropologica della musica, senza entrare nel merito della tesi che ci siamo proposta, definisce la musica come fenomeno del tutto dipendente e intrinseco al percorso storico, sociale e culturale, della persona umana e come tale inscindibile dalla sua temporalità.

Per questo si può affermare, come dice il musicista Reiner Bischof, che, in tutte le sue acquisizioni culturali, la musica, di per sé stessa, è un’arte della morte, poiché un brano musicale non incomincia mai in un modo qualunque e non termina mai in un modo qualunque, ma ha inizio in un modo ben determinato e termina in un modo ben determinato. Ogni musicista sa infatti che le vere difficoltà di una composizione sono l’inizio e la fine, e la musica, attraverso la percezione dell’estensione nel tempo, è consapevolezza della fine. Ciò significa che la musica come “arte del tempo” è arte della morte; qui sta la sua inconfondibile efficacia nell’accedere direttamente alla sfera dei sentimenti umani1.

La coscienza anticipatrice della fine, la coscienza che un brano musicale cesserà di risuonare, rende possibile assistere, lungo lo scorrere del tempo musicale, ad un vero e proprio avvenimento concreto. Accade qualcosa durante questo tempo, qualcosa è raccontato durante questo tempo, e ciò che è raccontato sopravvive in un altro tempo: nel ricordo e, dunque, al di là di quanto è effettivamente accaduto.

Anche un altro autore, Vladimir Jankelevich, descrivendo le annotazioni dei compositori sulle loro partiture, in termini di “crescendo”, “diminuendo”, “morendo”, ha paragonato la musica alla morte. In nessun’altra opera d’arte come nella musica c’è questa idea della “durata”. Qualunque altra opera figurativa, letteraria, in teoria, si può contemplare all’infinito, finché non va in pezzi, non si sgretola. Non è così per la musica2.

Entrando nel vivo del nostro tema, percorreremo insieme a un esperto parte della storia della musica considerando gli aspetti delle composizioni che fanno esplicito riferimento alla morte, come voluto dai loro autori, iniziando dalla musica del ‘600.

Non è difficile constatare come molti aspetti della musica possano riflettere lo spirito dell’epoca, iniziando dal rituale funebre nell’Officium Defunctorum di Tomas Luis de Victoria (1548-1611), rappresentato da una musica cupa, severa, che dà un’idea della morte come una cappa che cade e chiude la vita, nel perfetto spirito controriformista del gesuitismo spagnolo.

Contemporaneamente, in Italia, Claudio Monteverdi (1567-1643), nella sua opera “Morte di Arianna” introduce il tema della rinuncia alla vita. La ninfa Arianna nel suo canto recita le parole: “Chi volete che mi conforti in così dura sorte, lasciatemi morire”. Siamo in un’epoca nella quale convivono due atteggiamenti verso la morte: come fenomeno ineluttabile e “scelta” a fronte di non poter sopravvivere alle avversità della vita.

Un tema ripreso dallo stesso Monteverdi e cento anni più tardi da Cristoph Willibald Gluck (1714-1787) nell’opera “Orfeo ed Euridice”: l’affascinante leggenda di Orfeo che potrebbe riprendersi Euridice dal mondo dei morti, a patto di non rivolgerle parola. Ciò, come noto, non succede e Orfeo vive il suo senso di colpa recitando: “Tu sei morta ed io respiro”.

Nell’Orfeo di Gluck, siamo agli albori dell’illuminismo, prevale la filosofia che comporta che la nostra esistenza non sia del tutto in mano al fato, ma anche nelle mani dell’uomo. Nell’Orfeo di Gluck – ricordiamo la meravigliosa aria: “Che farò senza Euridice…” – i due amanti vengono perdonati. Al contrario nell’opera di Monteverdi : “Tu sei morta ed io respiro, tu sei da me partita ed io rimango...” c’è lo strazio del distacco senza speranza. In Gluck nasce la “possibilità”, relativa alla ragione illuminista. È anche il momento in cui viene posto il germe della medicina moderna.

A metà Settecento nasce Wolfang Amedeo Mozart (1756-1791). È ancora il tempo delle morti “famigliari”, anche se non ancora “domestiche” (nel senso di “addomesticate” dalla ragione). Basti pensare alla grande mortalità infantile. Lo stesso Mozart dei sette figli che ha generato ne vede sopravvivere solo due. In gran parte della sua “filosofia” musicale saggia il tentativo di avvicinare la trascendenza. Come altri musicisti dell’epoca – Haydn per esempio – aderisce alla massoneria che gli conferirà una sorta di particolare razionalità. Lo si avverte nella “Mauerische Trauer Musik” (Musica funebre massonica), dove si sente un continuo, terrificante ripetersi del numero tre (il simbolo ternario ha grande valore per i massoni) e dove l’idea che la morte è insieme un incontro con il divino e lo spegnimento della luce della vita del massone per bene.

Nel suo famoso “Requiem”, anche se è una messa che non diventerà mai la sua messa da requiem (è rimasta incompiuta e verrà completata dal suo allievo Sussmeyer e da altri musicisti), scrive il proprio epitaffio, non ancora malato, né ovviamente in fin di vita. Muore a 36 anni dopo aver scritto il Flauto Magico e la sua messa non poté nemmeno essere eseguita in chiesa per divieto del Vescovo di Salisburgo.

In alcune opere di un altro immenso musicista, Ludwig van Beethoven (1770-1827), non mancano passaggi musicali, nei quali torna l’idea della morte, come nel quartetto op.59 n.3, nella stupenda marcia funebre della Sinfonia detta “Eroica”, nella Sonata degli Addii, nei Lieder. Siamo agli albori dell’’800 e nella sua produzione ad un certo punto sembra che provi volutamente a mettersi in rapporto con l’idea della morte. Tra i sei Lieder, scritti sui versi di tale Christian Furstegor Gellert, ve ne è uno che ha un titolo incontrovertibile: “Vom Tode” (della morte). Quando Beethoven lo compone è il momento storico delle guerre napoleoniche, durante le quali vengono perpetrate terribili carneficine, che mettono in contatto soprattutto gli intellettuali con il senso della catastrofe e della fine. Il breve testo che musica Beethoven dice: “Il filo della mia vita sta passando, ogni ora io corro verso la tomba, e cos’è che forse io vivo per questo lutto? Pensa oh uomo alla morte, non lasciar perdere, perché è una cosa dovuta!”. Ascoltando l’esecuzione del pianoforte, che accompagna questi versi, sembra quasi che il grande pianista-compositore si freni davanti alla tastiera, rendendo lo strumento più scabro possibile, sottraendogli ogni sonorità eccedente, proprio per dare l’idea della fine. Quello che vuole trasmettere Beethoven è l’immagine di un’assenza incombente, un togliere continuo. Nell’esecuzione si nota l’insistenza sulla parola “Tod” (morte) che fa rima con “Not” (necessità), per rendere l’idea di “ineluttabilità”: un classico del romanticismo.

Ci spostiamo nel nostro Paese, dove, nello stesso secolo, nasce Giuseppe Verdi (1813-1901), di cui va citata la Messa da Requiem, scritta per la morte di Alessandro Manzoni (1785-1873). Il confronto con il solenne Requiem di Mozart, che nasce nella Vienna illuminista, ci pone all’ascolto di un’immagine musicale della morte più “spettacolare”, una forma per così dire “esibizionista”. La morte è rappresentata nel suo aspetto più drammatico e doloroso, che si avverte nel grido disperato del Dies Irae e nell’invocazione dolente del “Libera me”.

Non si può lasciare Verdi senza citare la sua straordinaria eredità di opere liriche, tra le quali, a proposito di immagini di morte, compare “La Traviata”. La protagonista, Violetta, è destinata a morire per la malattia del Secolo: la tisi, che colpiva con grande frequenza i giovani e le giovinette, dando loro quei segni di languore e abbandono, che hanno segnato le cosiddette “morti belle” del romanticismo. Proprio a pochi minuti dalla fine dell’opera si consuma la tragedia di una simile morte, una “morte giovane”, col grido meraviglioso – musicalmente – della protagonista, che prende coscienza della sua fine: “Gran Dio, morir sì giovane!”.

A proposito della produzione operistica, esiste una grande dicotomia nella musica che riguarda il modo di dipingere situazioni dell’animo umano: universali e molto profonde nell’opera di Verdi, immaginarie e con uno stretto rapporto tra suono e parola nell’opera di un coevo di Verdi: Richard Wagner (1813-1883). La sua produzione risponde al dettato: “Wort und Ton Drama” (teatro fatto di suono e parola assieme). Di Wagner va ricordata l’opera più distaccata dal grande mito nibelungico, al quale ha copiosamente attinto l’autore, e che, nel suo finale, ha una delle più complesse, straordinarie e apocalittiche, meravigliose descrizioni della morte: il “Tristano e Isotta”. Nella vicenda, che vede i due amanti morire insieme, per aver assunto – in un susseguirsi di fraintendimenti e malintesi – un filtro amoroso, che in verità è un veleno, colpisce la voluttà, l’erotismo, si deve dire, della morte di Isotta, la quale finalmente tra le braccia di Tristano non solo sente che la vita la sta lasciando, come se stesse annegando tra i flutti delle onde: “...devo... gettarmici dolcemente in questo profumo, evaporare nella massa delle onde, nel fragore dei flutti, nel tutto che respira col respiro del mondo, annegarmi, inghiottire, perdere coscienza, oh suprema voluttà!”, ma ne gode fisicamente, nel più esplicito amplesso tra amore e morte. Isolde entra in una vita eterna d’amore con Tristano, dando una delle rappresentazioni più terribilmente “vitali” dell’idea della morte.

Nemmeno Franz Schubert (1797-1828) nel quartetto D810 (“La morte e la fanciulla”), che riprende il secondo movimento del lieder omonimo, “Der Tod und das Madken”, è riuscito a rappresentare in modo tanto esplicito e convincente, l’abbraccio tra la morte e una passione amorosa, giovanile. Di Schubert è interessante notare come porti attenzione verso la morte nell’infanzia. Qualcosa che, ai tempi di Mozart, per esempio era meno sentita, destava meno impressione, era meno problematica, data l’elevatissima mortalità infantile. Il lieder che rappresenta questo tragico momento musicato da Schubert ha il titolo “Der Elf Konig” (Il Re degli Elfi).

Il lieder racconta di un uomo che cavalca con suo figlio tra le braccia: “Chi cavalca a quest’ora per la notte e il vento? È il padre con il suo figlioletto. Se l’è stretto forte in braccio, lo regge sicuro, lo tiene al caldo...”. Segue un dialogo drammatico tra il figlio e il padre, fatto di allusioni al re degli Elfi, che è la morte, e a immagini spaventose di morte, che il padre dice essere illusioni. Infine il cavaliere si accorge di avere tra le braccia il cadavere del bambino.

Col tema della morte nell’infanzia, ci avviciniamo alla musica “moderna”. Un poeta tedesco Friedrich Rukert (1788-1866) alla morte dei suoi due figli scrisse ben 428 poesie raccolte nel volume “Kindertodtenlieder”. Il musicista Gustav Mahler (1860-1911) ne musicò 5 con il titolo “Kindertotenlieder” (Canti dei bambini morti). Anche Mahler passerà sotto il giogo del dolore per la morte di suoi bambini, ma non aveva ancora avuto questa terribile esperienza all’epoca della composizione di quei lieder. È difficile dire quale di queste composizioni sia la più toccante e tragicamente bella. Sta di fatto che il compositore ci trasmette i più noti e penosi sentimenti, che possono essere legati alla perdita di un bambino. Come è nel suo stile e nella sua filosofia, Mahler descrive lo strazio e il senso di colpa che a volte provoca la morte di un bambino, attutiti alla fine dalla speranza nella fede di un aldilà: “Ora non c’è più ragione di essere in pena. Con questo tempo, con questi sibili e rombi di bufera, [i bimbi] riposano come nella casa materna, non più atterriti da alcuna tempesta, protetti dalla mano di Dio”.

Venendo a composizioni ancora più vicine alla nostra epoca va ricordata la versione musicale di un’altra storia d’amore, che ha un finale tragico, simile a quello del Tristano wagneriano, è la storia di Pelleas e Melisande, da una vicenda narrata dal poeta Maurice Maeterlink (1862-1949). Le versioni musicali più note sono quelle di Claude Debussy (1862-1918), Gabriel Faurè (1845-1924) e Arnold Schoenberg (1874-1971). Non è possibile soffermarsi sulle differenti interpretazioni, se non mettendo in evidenza come queste morti sono rappresentate ora con meno clamore, a volte circondate solo da silenzi, non lontani dal pudore che porterà a nascondere la morte negli anni a venire.

Con un altro balzo in avanti arriviamo al teatro di Bertold Brecht (1898-1956) e alla musica che ha accompagnato indissolubilmente le sue opere, più nota quella composta da Kurt Weill (1900-1950) (l’“Opera da tre soldi”), meno famoso un altro musicista che compose per Brecht: Hanns Heisler (1898-1962). Heisler musicò una poesia di Brecht dal titolo “Uber der Selbstmord” (sul suicidio), che compare nell’opera “In diesem Land, in diesem Zeit”. Dice la poesia: “In questo posto non potrebbero esserci serate peggiori, o ponti più alti sopra i fiumi. Anche quell’ora che va tra il giorno e la notte e tutta la stagione invernale sono pericolose, perché basta poco prima che uno prenda la propria vita e la butti giù!”. È interessante notare come la poesia musicata da Heisler denoti il disagio esistenziale di una generazione che è alle soglie del secondo conflitto mondiale e descrive la vita grama di un paesino, una cittadina, in cui le cose stanno per andare male e non vale la pena di pensare alla vita futura, è meglio “buttarsi giù” in un “Augenblick”, un batter d’occhio, di cui nessuno si accorgerà.

Stiamo parlando della morte nella musica ed è ovvio che tutti questi esempi, benché facciano parte di una nota e grandemente apprezzata produzione musicale, non sono paradigmatici della musica intesa come popolare manifestazione artistica e dei sentimenti. Purtuttavia la limitazione al tema che ci siamo prefissi dà una perfetta idea dei cambiamenti, che rispecchiano – come si diceva nell’introduzione – lo spirito dell’epoca, in cui sono state composte.

Non è possibile addentrarci nell’enorme mole di composizioni contemporanee, tra le quali non potrebbero essere trascurate le musiche popolari e i vari generi musicali, che riempiono a dismisura il mercato discografico con il folk, il rock, la disco, il trap, il rap e tutti i loro derivati. Nemmeno si può tuttavia concludere questo contributo senza osservare che si sta chiudendo un ciclo.

Nella musica colta la composizione si è spostata dalla “tonalità” alla ricerca della “atonalità”. Dopo l’avvento della dodecafonia - la musica seriale introdotta da Arnold Schonberg - i compositori si sono cimentati in generi di musica come l’aleatoria, la concreta, politonale, nelle quali viene meno la tradizionale ricerca dell’armonia e il rapporto tra le tonalità. Così nella musica popolare si è rarefatto il mondo dei classici cantanti che compongono musica e testi delle loro canzoni di carattere sentimentale o romantico, e soprattutto tra le frange più giovani si sta imponendo un sistema di suono, mono-tono, accompagnato da una forma ritmica quasi del tutto priva delle armonie tradizionali. In questo genere musicale vengono apprezzati più il testo, la parola, il modo di esprimersi, che non la notazione musicale.

Se si deve cercare un significato a questi cambiamenti, lo si può con grande probabilità trovare nel disagio che questa “musica”, apparentemente caotica per l’ascoltatore dall’orecchio più raffinato, vuole trasmettere, mimando consapevolmente ritmi tribali, proponendo una nuova ritualità che accomuna enormi masse di giovani.

L’’interessante riflessione che si sofferma a considerare la musica come fenomeno che nasce dal silenzio - e che comprende quindi spazi di attesa, come le pause – e termina nel silenzio, ci porta ad affermare che, nell’apparente odierna regressione al “primitivo”, questa successione sembra mancare, tanto nella musica colta, che rompe il silenzio per inserire “rumori” che fanno parte della composizione, che nella musica “pop”, quando gli ascoltatori “entrano” in un flusso musicale già in atto – come nelle discoteche - che per opera dei DJ non si interrompe, se non per esaurimento di chi trasmette la musica o di chi l’ascolta. E ancora una volta non è questa forse l’immagine della vita caotica che fluisce ininterrotta nell’era delle metropoli industrializzate?

Forse solo nelle sale da concerto il suono è come un accidente che sorge all’improvviso da un fondo silenzioso per poi spegnersi e ritornarvi. In questi contesti, particolarmente congegnati per ascoltare musica colta, le pause sono tracce visibili del basamento silenzioso sul quale poggia la musica: momenti altrettanto importanti di quelli coperti dai suoni e contribuiscono a veicolare determinati messaggi musicali.

Si può dire in conclusione che tutta la musica, in tutte le sue forme, non solo dimostra di essere come abbiamo visto un’arte vicina alla morte, ma di aprirsi con le sue proprietà ad uno spazio nuovo: lo spazio dell'infinito e dell'eterno, che trascende la temporalità.

È altrettanto vero che solo un certo tipo di musica, quella che trasmette esplicitamente la ricerca di un senso nel suo iniziare e nel trovare una fine, ci trasporta nel puro concetto di tempo, e rispecchia la vita e la sua fine. Se viviamo senza l’anticipazione di quella fine, senza quel sapere che anticipa quella fine, non potremmo mai avere un concetto di tempo.

Sant’Agostino ha introdotto una interessante definizione del tempo: il tempo che è ricordo e attesa, e tra il ricordo e l’attesa c’è quel momento tragico del turbamento umano nel presente, come può esserlo la musica che stiamo ascoltando3.

Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

1. Bischof R. Morte e musica. Atti del Convegno Massoneria e Musica. Roma: Soc. Ed. Erasmo, 1988.

2. Lisciani Petrini V (a cura di). Jankelevich V. La Morte. Torino: Einaudi, 2009.

3. Catapano G (a cura di). Sant’Agostino. Il Tempo. Roma: Nuova Biblioteca Agostiniana, Città Nuova Ed., 2007.