La palliazione: uno stupro semantico

SANDRO SPINSANTI

Istituto Giano per le Medical Humanities, Roma

Pervenuto e accettato il 25 febbraio 2021.

Riassunto. Un saggio di natura filosofica, rivolto a criticare l’atteggiamento nei confronti del dolore proprio della nostra società, si presenta con titoli diversi nell’originale tedesco e nella traduzione italiana. La “società palliativa” dell’originale è stato tradotto con “società senza dolore”. L’uso del termine “palliazione” in senso denigratorio è sorprendente per tutti coloro che considerano invece la palliazione un obiettivo etico e culturale di primaria importanza. Sullo sfondo si profila un minaccioso ritorno di esaltazione del dolore a scopo umanistico e spirituale, qualificabile come “dolorismo”.

Parole chiave. Cure palliative, dolorismo, terapia del dolore, semantica.

Palliation: a semantic rape

Summary. An essay of a philosophical nature, aimed at criticizing our society’s attitude towards pain, is presented with different titles in the original German and in the Italian translation. The “palliative society” of the original has been translated as “painless society”. The use of the term “palliation” in a disparaging sense is surprising for all those who instead consider palliation an ethical and cultural goal of primary importance. In the background looms a threatening return of the exaltation of pain for humanistic and spiritual purposes, which can be qualified as “pain”.

Key words. Palliative care, pain therapy, semantics.

Dunque, immagina: uno scrittore si propone di redigere un saggio sulla nostra società. Lo spunto iniziale gli è fornito da una citazione di Ernst Jünger. Non lo conosci? Ti basti sapere che è un autore tedesco, vissuto nella prima metà del XX secolo; molto, molto discusso. È stato combattente della prima guerra mondiale e ha celebrato con toni molto esaltati la guerra stessa. Sulla stessa lunghezza d’onda di Marinetti che in Italia, in quel periodo, dava voce al futurismo e della guerra affermava che è “la sola igiene del mondo”. La frase di Jünger su cui il nostro autore si appoggia suona: “La guerra non è solamente nostra madre, è anche nostra figlia. Siamo operai della nostra sofferenza, martiri della nostra fede”. Su questa base, il saggista si sente autorizzato a scagliarsi contro la nostra società, perché si mostra “guerrofobica”. Le tante accuse che si sente in diritto di rivolgerle le riassume nell’aggettivo “pacifica”, che intende sintetizzare tutte le storture della società stessa. Se volessimo contestargli che questo aggettivo non si presta alla strumentalizzazione che ne ha fatto, perché nell’uso linguistico comune ha un significato positivo ed è inconcepibile che la società possa essere criticata con una parola dal significato stravolto, il nostro autore si potrebbe difendere adducendo che ha usato “pacifico” in senso metaforico. Dimmi: a questo punto riterresti che valga ancora la pena seguirlo nei suoi s-ragionamenti? Ne dubito.

Ebbene, l’esempio è inventato. Reale è invece un’altra vicenda letteraria. Un filosofo coreano-tedesco, Byung-Chul Han, intende scrivere un saggio sulla società contemporanea e su vari atteggiamenti che ritiene sbagliati. Parte appunto da una frase di Ernst Jünger: “Dimmi il tuo rapporto con il dolore e ti dirò chi sei”. A suo avviso questa sentenza può essere riferita alla società intera. E siccome la nostra società rifugge dal dolore – è “algofobica”, secondo la sua definizione – si sente autorizzato a chiamarla “società palliativa”. Palliativo è dunque l’insulto che le riserva, squalificandola per la sua incapacità di saper valorizzare il dolore. Palliativgesellschaft è appunto il titolo del libro in tedesco. Il traduttore italiano ha avuto qualche esitazione a tradurre, letteralmente, “società palliativa” e ha preferito: La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite.1 A richieste di chiarimento, l’autore risponde che il “palliativo” applicato alla società che critica è un uso metaforico.

L’atteggiamento palliativo nei confronti del dolore, equivalente ad “algofobico”: una metafora accettabile? Scivoliamo qui nel significato delle parole: fino a che punto può essere modificato a seconda delle preferenze di chi le usa? Se ci avventuriamo nel mondo di Alice descritto da Lewis Carrol, possiamo incontrare Tombolo Bombolo, che non ha dubbi: “Quando io adopero una parola, essa ha esattamente il significato che io le voglio dare… né più né meno”. Alice esprime i suoi dubbi: “Bisogna vedere se voi potete fare che le parole indichino cose diverse”. Ma Tombolo Bombolo è irriducibile: “Bisogna vedere chi comanda… ecco tutto”2. Ma se il filosofo tedesco-coreano non comanda in ambito linguistico, il suo uso di “palliativo” nel senso di “algofobico” è una forzatura abusiva. Fa dire alla parola ciò che non vuole, anzi esattamente il contrario. Possiamo chiamarla anche uno stupro semantico.

Una seconda riserva, oltre a quella linguistica, riguarda il contenuto del saggio in questione: ha a che fare con l’esaltazione del dolore come elemento costitutivo della qualità umana. Non possiamo dimenticare che abbiamo alle spalle un passato in cui il dolore veniva esaltato come condizione per accedere a un livello superiore di esistenza. L’ideologia del dolore come strumento di redenzione e di salvezza è tradizionale in alcuni modi di interpretare e di vivere il cristianesimo. Chiamiamolo pure “dolorismo”. Lo scrittore Christopher Hitchens ha indirizzato i suoi strali polemici contro Madre Teresa di Calcutta, identificandola come la portavoce di questa concezione ai nostri giorni.3 Soprattutto è motivo di turbamento la descrizione delle Case dei moribondi gestite dalla religiosa, deprivate volontariamente di ogni condizione di conforto, a cominciare dalla rinuncia a trattare i morenti con analgesici forti, sempre in nome di una mistica del dolore.

È una concezione che si colloca agli antipodi della cultura che ha creato e diffuso gli hospice come luoghi privilegiati di accompagnamento verso la fine del percorso: contrastando i sintomi dolorosi e rispettando il diverso profilo morale dei morenti. Compreso il quanto e il come vogliono dare spazio al dolore nella loro vita. Anche all’interno della spiritualità religiosa che si ispira al cristianesimo oggi un’esaltazione del dolore come scala per accedere a livelli più alti di autorealizzazione è delegittimata. La creazione di movimenti come i “Volontari della sofferenza” è in dissonanza con la sensibilità del nostro tempo, anche con quella religiosamente ispirata. Non vorremmo veder riaffiorare una versione laica del dolorismo di impronta religiosa attraverso la deprecazione di una società che combatte il dolore e l’auspicio di una società non più algofobica.

I promotori delle cure palliative non possono che schierarsi in prima linea nel difendere un corretto uso dell’aggettivo che le qualifica. Soprattutto se si confrontano con la consapevolezza di quante difficoltà persistono per chi vuol promuovere l’atteggiamento palliativo nella nostra società e dei ritardi, a più di dieci anni dalla legge 38/2010 che ha sancito il diritto ad accedere alla terapia del dolore, ad avere trattamenti antalgici accessibili per tutti i cittadini su tutto il territorio nazionale. Parlare di una società “palliativa” in senso denigratorio è analogo all’accusa di società “pacifica” nell’ipotetico saggio con cui abbiamo avviato la nostra riflessione. Per quanto possano essere giustificate eventuali critiche culturali a un evitamento sistematico del dolore, che può condurre a un’esistenza umana caricaturale, non è legittimo gettare ombra su quanto può e deve essere fatto per dar scacco al dolore, quando si accompagna al degrado della vita. Degli esseri umani; ancor più: di ogni animale senziente. Di una cultura che mette tutte le sue risorse – da quelle mediche a quelle culturali, a cominciare dalla capacità di dimostrare vicinanza a chi soffre – per contrastare il dolore non ci dobbiamo vergognare. Al contrario: la difendiamo con fierezza.

Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

1. Han B-C. La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite. Torino: Einaudi 2021.

2. Carrol L. Alice nel paese delle meraviglie. Attraverso lo specchio. Milano: Mondadori, 2003.

3. Hitchens C. La posizione della missionaria. Roma: Minimum Fax, 2003.