Shoah e cure palliative: curare i sopravvissuti, il dovere della memoria

FERDINANDO GARETTO1, ANTONINO CALVANO2, FERDINANDO CANCELLI3, MONICA SEMINARA1,2,3

1Cure palliative, Oncologia Medica Humanitas Gradenigo, Torino; 2Consiglio Nazionale Croce Rossa Italiana, Roma; 3Fondazione FARO, Torino.

Pervenuto il 31 gennaio 2021. Accettato il 1 febbraio 2021.

Riassunto. Una riflessione a partire dal webinar “Understanding the impact of Trauma on Holocaust Survivors Facing the End of Life. Examining the Past to improve Present care” della MJHS di New York e accompagnata dalle parole di Primo Levi (1919-1987). La memoria della deportazione nei lager continua a interrogare anche il mondo delle cure palliative. Spunti molto concreti sull’accompagnamento dei sopravvissuti e sulle implicanze che riguardano anche la seconda e la terza generazione richiedono una formazione specifica per il riconoscimento di tali peculiarità. Ulteriori elementi di stringente attualità riguardano la sindrome da distress emotivo anche in condizioni rese ancora più presenti dalla pandemia SARS-CoV-2, caratterizzata da isolamento fisico, allontanamento forzato dall’ambiente familiare e disorientamento, de-umanizzazione relazionale. Infine, l’eterna domanda del lager (“come è potuto accadere?”) richiama a pressanti interrogativi etici sui temi del presente.

Parole chiave. Shoah, cure palliative, Sindrome post-traumatica da distress emotivo, Covid-19, etica.

Shoah and palliative care: caring for survivors, the duty of memory.

Summary. A reflection starting from the webinar “Understanding the impact of Trauma on Holocaust Survivors Facing the End of Life. Examining the Past to improve Present care” of the MJHS in New York and accompanied by the words of Primo Levi (1919-1987). The memory of the deportation to the concentration camps continues to question the world of palliative care as well. Very concrete ideas on the accompaniment of survivors and on the implications that also concern the second and third generation require specific training for the recognition of these peculiarities. Further elements of urgent relevance concern the Post- Traumatic Distress Syndrome even in conditions made even more present by the SARS-Cov-2 pandemic, characterized by physical isolation, forced removal from the family environment and disorientation, relational de-humanization. Finally, the eternal question of the concentration camp (“how did this happen?”) calls for pressing ethical questions on the issues of the present.

Key words. Shoah, palliative care, Post-Traumatic Distress Syndrome, Covid-19, ethics.

Introduzione

In uno degli ultimi articoli pubblicati sul quotidiano “La Stampa” prima della sua morte, Primo Levi tornò sul tema della memoria (costretto dalle montanti teorie negazioniste che cominciavano a diffondersi anche in Italia) con un pezzo sofferto e essenziale dal titolo “Il buco nero di Auschwitz”1. Una definizione insuperata di quella indispensabile memoria, mai completamente raccontabile e mai fino in fondo condivisibile, dei sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti. Un “buco nero” – appunto – da cui i fantasmi del passato, espressione di una sofferenza emotiva inestinguibile e da un imponente e protratto trauma da morte incombente, possono riaffiorare in modo inatteso o erompere in modo violento nei momenti critici della vita, massimamente nelle fasi di fine vita. Molti di noi (anche se, purtroppo, sempre meno frequentemente per evidenti motivi anagrafici) hanno potuto osservare nelle assistenze domiciliari o in hospice la complessità delle ultime ore di alcuni ex-deportati, funestate in un particolarissimo stato di delirium da ombre che gridano ordini in tedesco e disperati tentativi di fuggire da prigionie dell’inconscio, rivissute nelle sponde dei letti o anche solo nell’impotenza del deterioramento fisico e cognitivo. Negli ultimi mesi la tematica, in tutta la sua drammaticità, sembra essere tornata al centro di importanti riflessioni, sollecitate di riflesso anche dalle imprevedibili circostanze della pandemia, tra un “prima” sconvolto da un evento imprevedibile, un “durante” traumaticamente vissuto in condizioni di separazione e distanziamento e un “dopo” ancora tutto da definire, ma già adesso difficile da raccontare.

Metodi e materiali

Tra i tanti webinar che sono stati occasione di preziosi scambi anche a distanza fra palliativisti nel tempo della pandemia, è stato particolarmente significativo il corso del 9 settembre 2020 dal titolo “Understanding the impact of trauma on holocaust survivors facing the end of life. Examining the past to improve present care”. In tre ore di grande intensità e valore formativo si sono alternate le voci dei sopravvissuti, con quelle di storici, psichiatri e palliativisti, nell’ambito del programma “Hospice e cure palliative” del MJHS (Metropolitan Jewish Health System), prestigiosa fondazione assistenziale di New York2.

Gli obiettivi del corso erano:

come prendersi cura dei sopravvissuti nella fase conclusiva dell’esistenza;

come riconoscere le patologie post-traumatiche da stress nella pratica assistenziale quotidiana;

come valutare e prendere in cura le relazioni nei contesti dei membri familiari di seconda e terza generazione;

quali attualizzazioni nel tempo della pandemia Covid-19.

Contenuti

Com’è noto, la peculiarità storica della Shoah non deriva in modo essenziale dall’ampiezza delle atrocità commesse – per quanto enormi in intensità e dimensione – bensì dalla meticolosa e dettagliata pianificazione dello sterminio, che ne fa un unicum nella storia dell’uomo. Accantonati, per ragione di costi, precedenti progetti – come la deportazione di massa in Madagascar di tutti gli ebrei degli stati occupati – la “soluzione finale della questione ebraica”, come venne ambiguamente ma efficacemente definita, fu concordata e formalmente approvata nel corso della Conferenza di Wannsee, che si svolse nei pressi di Berlino il 20 gennaio 1942

Dalla ricostruzione storica, in particolare del periodo 1939-1945 e dall’identificazione delle radici antecedenti che hanno portato alla strutturazione dei campi di concentramento nazisti, è possibile identificare una serie di problematiche di attualissima rilevanza clinica, non solo riferita alla cura dei sopravvissuti allo sterminio:

effetti del trauma estremo e diverse modalità di reazione individuale;

effetti a lungo termine nelle relazioni familiari dei sopravvissuti;

effetti dell’esperienza traumatica subita, nei pazienti e negli operatori sanitari;

in particolare, reazione degli operatori sanitari di fronte all’osservazione e al racconto delle esperienze traumatiche dei reduci (negazione conscia o inconscia, rifiuto, ma anche convinzione di “essere immuni” dal rischio di accettare trattamenti disumanizzanti, con conseguente abbassamento della “soglia di attenzione” etica, dimenticando che molti dei medici che parteciparono a esperimenti che prevedevano o determinavano torture o omicidi erano professionisti di elevatissima preparazione con una storia personale di alto livello scientifico);

effetti di una precedente esperienza traumatica subita per gli operatori (con reazioni di aumentata sensibilità ed empatia per il dolore altrui o in alternativa costruzione di barriere di distanziamento emotivo per non rivivere la propria sofferenza immedesimandosi in quella dell’altro).

Strategie di aiuto per lavorare con i sopravvissuti alla Shoah

Gli strumenti per identificare i sopravvissuti alla deportazione presentano sfaccettature di grande delicatezza. Possono essere sufficienti alcune semplici domande: data di nascita, data di immigrazione, religione, lingua (il contesto del corso, ricordiamo, è quello degli Stati Uniti d’America, ma in un rapporto di cura tali accorgimenti possono risultare naturali anche nelle nostre prese in carico a domicilio e in hospice di pazienti nati anteriormente al 1940). Ottenere informazioni più “cruciali” è invece di maggior complessità: spesso potrà esserci desiderio di non raccontare e di tenere al di fuori della discussione i vissuti traumatici. Domande dirette potrebbero essere considerate con sospetto anche a distanza di decenni. Il trauma non esplicitato potrebbe manifestarsi in una diffidenza (fino alla paura e al rifiuto) rispetto ad un prelievo ematico o all’analisi di un campione di urine. Diventa necessario spiegare bene e a fondo il significato e l’utilizzo dei dati che potranno derivarne. Si tratta di “identificare”, cioè riconoscere l’identità: individuare la specificità dell’individuo al fine di attivare la modalità relazionale più consona, nel pieno rispetto della volontà della persona assistita di confrontarsi o di tacere.

Fondamentale l’attenzione ai “triggers” potenzialmente scatenanti flashback emotivi:

semplici procedure igieniche e assistenziali (divise, DPI, maschere per l’ossigeno);

depersonalizzazione dell’organizzazione dei servizi ospedalieri (l’identificazione tramite “numeri” o braccialetti non facilmente rimovibili);

rumori allarmanti (suono dei campanelli, segnalazioni di pompe infusionali, luci notturne accese all’improvviso, sirene delle ambulanze);

distanziamento dai familiari e spostamento di luogo di cura (dalla casa a un reparto o in stanze diverse);

persino i tentativi di “forzare” nel senso della pianificazione anticipata delle cure rispetto alle scelte di fine vita (“contro-intuitive” rispetto alla volontà di vivere e sopravvivere degli anni della guerra).

Empatia, ascolto attivo, domande aperte, postura narrativa, ricerca dei significati, onestà comunicativa, parafrasi e riformulazione sono parte del lungo elenco (“include, but are not limited to…”) degli atteggiamenti che possono favorire una graduale costruzione relazionale di autentico accompagnamento.

Molto rilevante l’aspetto della sofferenza intra-generazionale e delle implicanze comunicative: i sopravvissuti in genere non parlano delle proprie esperienze con i figli, anche rispetto ai temi generali della salute e della malattia, e raramente esistono direttive anticipate o pianificazioni di cura. I figli, in genere, temono di scatenare elementi di sofferenza ad affrontare tali tematiche, e il rischio è quello di una inaccessibilità ai temi del fine vita vissuti nella solitudine di una dimensione profonda e personale, percepita come non condivisibile, che può attivare, nella relazione affettiva, incomunicabilità e grande sofferenza reciproca. Vengono riconosciute almeno quattro tipologie di relazione familiare:

tipo 1 e 2: della “vittima” o dello “svuotamento emotivo” (numb), tende a trasmettere ansia, silenzi e perdita di fiducia nelle relazioni esterne alla famiglia;

tipo 3 e 4: del “combattente” o del “reduce” (“I made it”), proiettato in un atteggiamento di perenne sfida, attivismo sociale per una vita da vivere in ogni istante con pienezza “senza lasciare prigionieri” (“take no prisioner”).

Tutte e quattro le tipologie comportano il rischio di dinamiche complicate nella fase dell’accompagnamento al fine vita, che necessitano di specifici atteggiamenti consapevoli da parte dei curanti. La seconda generazione spesso vive una dimensione di “candela della memoria” del proprio genitore e dei familiari uccisi nei lager, con elevato rischio di identificazione e lutto irrisolto. Il “lavoro di cura” deve essere particolarmente attento e rispettoso di queste dinamiche, in particolare nella fase di preparazione alla separazione e nell’elaborazione del lutto, aiutando il riconoscimento del fisiologico ciclo naturale della vita legato all’età e dell’importanza del “lasciare andare”, particolarmente difficile per chi ha sempre vissuto – per decenni, e dalla nascita, nel caso dei figli – l’incombenza della morte più o meno consciamente identificata come evento traumatico e violento.

De-umanizzazione ed empatia

L’attualità e le implicanze pratiche dell’argomento trattato – come ben illustrato nelle relazioni del corso, in particolare nel magistrale intervento di Irit Felsen, Psicologa Clinica alla Yeshiva University di New York3 – vanno anche al di là dell’esperienza specifica dei sopravvissuti, della seconda generazione e anche della terza generazione (numerosi studi condotti a partire dagli anni ’90 hanno evidenziato i disturbi di personalità spesso presenti nei figli di genitori di seconda generazione, con minori spazi di indipendenza, livelli ambivalenti di attaccamento e ridotta adattabilità a esperienze stressanti).

La riflessione sulla Shoah, in particolare sull’eterna domanda “come è potuto accadere?”, trova corrispondenze impressionanti in tutti i fenomeni di “de-umanizzazione” che possono presentarsi nelle ricorrenze storiche (il razzismo, il “disgusto” di fronte ai corpi dei profughi in condizioni igieniche degradate nei campi...), ma anche in situazioni concrete che fanno apparire “l’altro da sé” come “meno umano”. Il tema del “disgusto” di fronte ai sintomi di pazienti anziani, in particolare se affetti da demenza, o in cure palliative (“neuro-disgust”) deve essere affrontato apertamente e può riguardare tutti gli operatori, per quanto sia un meccanismo mentale (“less human than me”) che si vorrebbe negare o rimuovere. È evidente che la concomitanza di più fattori (essere reduci, affetti da demenza, in fine vita) espone a un più elevato rischio di de-umanizzazione4.

I processi di de-umanizzazione sono però reversibili quando chi si accosta al paziente riesce a costruire una autentica dimensione empatica (“when perceivers are forced to consider the other’s mind”) in una condivisione profonda della comune umanità. Strumenti della relazione empatica possono essere l’interesse e la valorizzazione dei vissuti, l’utilizzo di fotografie dei pazienti in giovane età e possibilmente a grandezza naturale, riconoscendoli nella loro identità (“like us”), mantenere il contatto e il coinvolgimento con i loro cari, e – quando null’altro fosse possibile – cercare di “pensare nella propria mente come se fosse quella del paziente”, anche attraverso semplici domande (“che cosa gli piacerebbe fare? quale sarebbe il suo cibo preferito, o il colore, la festività più amata?”).. La messa in atto di un’assistenza empatica anche se rispettosa e non invadente potrebbe in un certo senso bilanciare i danni a lungo termine di un trattamento disumanizzante e meticolosamente progettato, come evidenziato nel celebre lavoro della Arendt5, per far sentire i prigionieri “Stücke” (“pezzi”) e non persone. Il modo più efficace e indispensabile per “umanizzare” resta la comunicazione personalizzata all’interno della relazione. Il senso spesso si trova, alla fine della vita, in una relazione che cura, che qualifica chi è stato squalificato, che riconosce chi è stato annullato, che ama chi è stato reietto: “se vivere è sofferenza, sopravvivere è trovare il senso di questa sofferenza” (V. Frankl)6.

Attualissima la riflessione sugli elementi di attivazione (o riattivazione) di vissuti di Sindrome da stress acuto o post-traumatico nel Covid-19, in particolare (ma non solo) per i sopravvissuti e per la seconda generazione:

“ubiquitarietà” nell’atmosfera familiare dei problemi di sopravvivenza;

timore di scarsità di risorse, di cibo, di vestiti (cura del corpo, abbandono);

incombenza della morte e impossibilità di proteggere sé e i propri cari (distanziamento);

isolamento sociale e separazione dai propri cari e dal proprio ambiente;

esperienza di “uccello in gabbia”;

incubi di maltrattamenti da parte di sconosciuti (“la notte dei cristalli”).

Fondamentale, come conclude la Felsen citando William Faulkner, ricordare che per i sopravvissuti il passato non è passato (“the past is not dead. In fact, it is not even past”): tutti – e per primi gli operatori di cure palliative – hanno il dovere innanzitutto etico, oltre che clinico e professionale – di permettere che i loro ultimi momenti fra noi siano accompagnati al meglio della relazione compassionevole, per onorare la loro umanità e, in questo modo, la propria.

De-umanizzazione e comprensione del reale

Secondo moltissimi dei racconti di chi ha fatto esperienza del lager, l’universo concentrazionario è, appunto, un mondo separato da quello che conosciamo, fatto di regole peculiari in quanto non associate ad una qualsiasi ragione pratica e imposte con insensata violenza7. La ricerca della logica nelle cose, dei motivi delle decisioni, l’abbinamento quasi ossessivo tra un atto e le sue ragioni sono, nella vita di molti sopravvissuti, il contravveleno essenziale alla ricomposizione lenta e progressiva di una prigione esistenziale sempre latente, i cui cancelli di ingresso non si sono mai completamente richiusi. È possibile pertanto che chi ha fatto esperienza del lager richieda un’attenzione maggiore rispetto alla descrizione di ciò che accade e del motivo per cui accade e che la logica che presiede a molti dei percorsi e dei fatti quotidiani – procedure, prassi, discipline – meriti ai loro occhi una connotazione umanizzante, che associ ad esse una ragion pratica.

Discussione

A distanza di tanti anni, la Shoah continua a interrogare l’umanità e a rappresentare una “pietra di inciampo” per l’Occidente. Il “sistema concentrazionario” è un qualcosa di apparentemente irripetibile per il sistematico disegno, curato in ogni dettaglio, di de-umanizzazione, ma è anche il segno di un meccanismo insito nella mente umana sempre pronto a riaffiorare, in particolare nei periodi di crisi sociale e morale come quello attuale.

La “memoria” è pertanto un dovere che riguarda direttamente anche i servizi di cure palliative: la cura del fine vita dei sopravvissuti presenta peculiarità che devono far riconoscere l’esperienza vissuta come un dato “anamnestico” indispensabile per un accompagnamento davvero “globale”. Allo stesso modo è rilevante l’attenzione ai familiari di seconda e terza generazione, che presentano anch’essi caratteristiche specifiche rispetto al fine vita proprio e dei propri cari.

Una riflessione più allargata, ma altrettanto attuale e necessaria, è quella che porta a riconoscere le stringenti analogie (senza semplicistiche assimilazioni) con le tematiche della pandemia: Sindrome post-traumatica da stress, isolamento sociale, de-umanizzazione, lontananza dei familiari, ma anche la difficoltà del “dopo”, dell’essere ascoltati con un certo fastidio e diffidenza da chi non ha vissuto l’esperienza (la cosiddetta pandemic fatigue particolarmente presente negli operatori nella seconda ondata di ottobre). La necessità della parola, con la quale si comprende e si è compresi. Come per il piccolo Urbinek, che nacque nel campo e nel campo “libero ma non redento” morì a tre anni: “…la parola che gli mancava e che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con una urgenza esplosiva”8.

Attualissimo nel dibattito etico di questi tempi il richiamo al “progetto eutanasia” degli ultimi anni ‘30, radice misconosciuta del sistema concentrazionario successivo (“la zona grigia della memoria” secondo l’analisi di alcuni storici)9. Le immagini solenni e autorevoli dei medici e degli infermieri nel modernissimo Centro Eutanasia del Castello di Hartheim, le argomentazioni umanitarie a fondamento della sistematica eliminazione delle Lebensunwertes Leben (“vite indegne di essere vissute”) non possono non interrogare chi autenticamente vuole approcciare questo delicatissimo tema10.

Conclusioni (il dovere della memoria)

Vista a distanza di un secolo tutta la sequenza delle vicende descritte appare incredibile. Il punto è che la follia dell’uomo non procede per alluvione, improvvisa e dirompente, ma per dosi di insipienza incrementali, insuscettibili spesso di essere valutate – dai contemporanei – come foriere di drammatici effetti. E come in un pendio scivoloso, chi scende di pochi centimetri non avverte particolari differenze rispetto al punto di partenza e chi si trova nell’abisso – dal quale non sa risalire – è anch’esso sceso di pochi centimetri dal punto in cui si trovava.

La storia non si ripete – si dice spesso – e l’argomento etico del “pendio scivoloso” è spesso messo in discussione, ma non si può dimenticare come la tragedia della Shoah – unica, si è detto, per dimensione e livello di pianificazione – sia stata preceduta da crimini contro l’umanità che in chiave diacronica possono evocarla ( la deportazione degli Armeni tra il 1915 e il 1916 ) e seguita da vicende altrettanto raggelanti se si considera che ebbero luogo in tempi ancora recenti (durante la crisi dei Balcani dai primi anni Novanta del Novecento).

Più che mai pressante, allora – ancora una volta e sempre idoneo a scuotere le coscienze – è il monito di Primo Levi:

“...Meditate che questo è stato: vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore...”11.

Bibliografia

1. Primo Levi “Il buco nero di Auschwitz”, La Stampa 22.01.1987.

4. Felsen I. Dehumanization in the treatment of elderly holocaust survivors and other elderly persons with histories of prior traumatization. 2018; Issue 8: Spring, of the online journal published by the Claims Conference, http://kavod.claimscon.org/2018/02/dehumanization-in-thetreatment-of-elderly-holocaust-survivors-and-other-elderly-personswith-histories-of-prior-traumatization/

5. Arendt H. La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme. Milano: Feltrinelli, 2012.

6. Frankl V. Uno psicologo nei lager. Milano: Sipos, 2009.

7. Levi P. La Tregua. Torino: Einaudi, 1963.

8. Levi P. I sommersi e i salvati. Torino: Einaudi, 1986.

9. Bryant MS. Confronting the good death. Nazi Euthanasia on trial 1945-1953. Boulder: University Press of Colorado, 2005.

10. Rubenfeld S, Sulmasy DP. Phisician-assited suicide and euthanasia. Before, during, and after the Holocaust. London: Lexington Book, 2020.

11. Levi P. Se questo è un uomo. Torino: Edizioni Francesco De Silva, 1947.

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