Non arrendiamoci!

(tra resistenza e memoria)

Sono tempi cupi.

L’aria è pesante, l’anima è schiacciata, il cuore oscuro. È come se una cappa generata da un pericolo imminente, ineffabile e imbattibile aleggiasse perennemente sul nostro capo, rendendo tristi le nostre esistenze, chiuse in se stesse e vigilanti, troppo vigilanti, rispetto a qualunque segnale inquietante possa provenire da un altro essere umano.

Nella percezione più semplice ma comune è come se vivessimo un tempo di guerra, impegnati in un conflitto contro un nemico di cui facciamo fatica a riconoscere e nome e volto.

A volte il nemico è fuori, è solo un virus che, nella elaborazione di un pensiero solamente freddo e razionale, risulta anche non troppo oscuro e misterioso, con cui si pensa si potrà anche convivere, forse addirittura addomesticabile. Altre volte il nemico è più di uno: perché il virus abita nei corpi, nelle vite delle persone, che però non sappiamo quali siano. E allora il nemico diventa la persona, ogni persona, data l’impossibilità di conoscere con certezza coloro che sono inabitati dal maledetto virus. Il nemico diventa l’altro, l’uomo, la donna; ogni uomo, ogni donna, fino a prova contraria. Allora il nemico diventa l’altro, il fratello e la sorella che si fa fatica a definire più tali perché, anche se inconsapevolmente, sono essi la causa potenziale e possibile della nostra personale caduta nel grembo del primo nemico, del virus malefico.

E allora, ecco che piano piano, lentamente ma inesorabilmente, sorge all’orizzonte un nuovo potenziale nemico, non meno pericoloso, non meno letale per il futuro di ognuno di noi: se stessi. Perché, in fondo, se vi poniamo più attenzione, la guerra vera che oggi siamo chiamati a combattere non è fuori di noi, contro uno o più nemici esterni a noi, bensì in noi, nella nostra più profonda interiorità, nel nostro spirito malato, nel nostro cuore chiuso e appesantito da una realtà di totale introversione escludente nei confronti di qualunque realtà umana altra da sé, considerata ormai solo quale fonte possibile, di contagio, di male, di morte.

E come un tarlo, che persiste indefesso nella sua opera corrosiva, si insinua progressivamente nel nostro cuore una nuova triste certezza: che più distanti siamo l’un l’altro meglio è, che meno ci tocchiamo meglio è, che meno parliamo in presenza meglio è. Che è meglio non abbracciarci, non stringerci più le mani, non correre più neanche il rischio di un semplice bacio. Fino a rendersi conto che sta diventando un nuovo modo di essere al mondo, un nuovo stile di vita, che tutto sommato non ci sta neanche male, oltre che a convenirci per fugare il pericolo imminente.

Ho sempre più l’impressione che ci stiamo lentamente arrendendo al virus in quello che è l’effetto più letale che esso possa esprimere: la lontananza, il distacco interumano, la diffidenza; in un solo, semplice, tragico concetto, la fine della prossimità, la negazione di ogni possibilità di vicinanza tra uomini, tra fratelli.

Ma la paura principale, che a mio avviso dovrebbe coglierci tutti mettendoci in allarme, è che a tutto questo rischiamo di abituarci, perché tutto sommato è meglio così; quante volte, in questi ultimi mesi, ci è capitato di sentire commenti del tipo “ma sì, ma tutti questi baci, in fondo, ma perché?”, “tutto questo continuo toccarci, abbracciarci, esibendoci in effusioni fisiche superflue, meglio di no, meglio così, inoltre siamo più sicuri”…

Mi sembra che la giusta distanza da mantenere in questo triste e difficile momento, stia prendendo la forma sempre più concreta di un escamotage, di una scusa facilmente presentabile con cui dare libero sfogo e vita piena al seme del tragico e sterile individualismo che attanaglia questa nostra epoca. Per cui, con il virus rassicurante e sempre presente sullo sfondo del nostro immaginario e delle nostre ragionate nevrosi, possiamo dare ampio spazio ad una dimensione nuova ma disumana, ad una solitudine spesso cercata ed ora trovata, sebbene malata. E allora, ecco che diventa semplice, perché giustificato, il salutarsi appena e da lontano quando ci si incontra, il salire a piedi piuttosto che in ascensore con un altro uomo o un’altra donna, il non guardarsi quasi più in faccia mentre si parla per paura delle famose goccioline; non sarà più necessario dare una carezza ad un essere umano morente, sarà superfluo, oltre che pericoloso, abbracciare una persona che soffre o baciarsi, anche per un semplice saluto; finalmente potremo stare da soli dovunque, senza correre il rischio di essere strattonati, senza che alcuno possa alitarci vicino, finalmente senza essere costretti a sopportare l’odore più o meno forte dell’umanità.

Però, nonostante tutto, nonostante questa sottile gratificazione che sembra ci faccia respirare aria più pulita, al riparo dall’aria respirata da un altro essere umano, resta, ancora inascoltata ma perniciosa, fine, sottile, vera e profonda, una voce che si fa lentamente strada dal fondo del cuore di ognuno di noi, provando a scuoterci le membra e a risvegliarci la mente.

Una voce che a tratti si fa grido, urlo imperioso, intriso di una strana e triste nostalgia che, appellandosi alla memoria di quello che è stato, di quella che è la nostra stessa identità umana, ci invita, con straordinaria insistenza, a resistere, a non dimenticare, a ricordarci chi siamo.

Una voce che traduce una sensazione netta e incoercibile, tragica e negativa, quella della perdita, del lutto, della dimenticanza improvvisa di tutto quello che significa umanità, vicinanza, cura, prossimità.

Una voce permanente che ci invita alla resistenza attraverso il ricordo irredimibile di quella che possiamo indicare come la caratteristica specifica e pregnante dell’essere umano, dell’essere umani: il desiderio istintivo, naturale, benefico e salutare del ritornare a toccarsi; il desiderio del rimanere abbracciati l’un l’altro e di poterlo ritornare a fare ogni volta che vogliamo.

Dal fondo del nostro spirito, dal centro della nostra anima, dove è inscritta la nostra immagine più vera e spesso misconosciuta, risale già oggi un invito forte, un richiamo deciso a pensare seriamente e definitivamente che il presente cupo della nostra attuale esistenza è verità di un solo momento, è presenza effimera di una necessità passeggera di lontananza, di distacco e di negazione solo transitoria di quella realtà che è invece la più congeniale dello stesso essere uomini e donne, la meglio connaturata al concetto stesso di umanità: la realtà dello stare vicini. Una realtà che esprime nient’altro che una potente e feconda necessità, generata dalla constatazione di verità che l’uno senza l’altro non può persistere, che non c’è io senza tu, e che l’io e il tu ricevono senso e speranza nella misura in cui riescono a vedersi, ad ascoltarsi, a toccarsi; soltanto se riescono, in sostanza, a riconoscersi.

Perché il rischio è reale: se decideremo che, in fondo, questa “distanza sociale” non è poi così malvagia, se questa modalità, ora necessaria, imprescindibile e “salvavita”, in fondo possiamo pensare di reiterarla anche in futuro e farla nostra, anche a pericolo scampato, allora ci ritroveremo ad avere a che fare con un altro nemico, ma un nemico dal volto confuso, non perfettamente distinguibile perché lontano, non riconoscibile perché distante, divenuto straniero perché inavvicinabile, intoccabile; sarà il volto dell’uomo, dell’altro uomo, da ora in poi non più definibile, non più conoscibile, non più affidabile. E se il volto dell’altro non ci dirà più nulla dell’uomo, della carne e dello spirito dell’uomo, non ci parlerà più nemmeno il suo cuore, il cui battito non potremo più apprezzare per la distanza, per quella distanza che ora rischia di diventare un’abitudine, un uso, una tradizione delle cui origini forse non sapremo più dire, ma di cui sapremo pian piano descriverne gli effetti come di una ferita bruciante e perpetua, la ferita a morte della nostra capacità di crescere in umanità.

Quella distanza che oggi ci salva la vita, ma che domani potrebbe ucciderci tutti, attraverso un percorso graduale di mortificazione e umiliazione crescente di tutto ciò che attiene alla semplice umanità. L’assenza del contatto fisico, oltre ogni urgenza, raffredderà i nostri corpi e i nostri cuori. E l’uomo, inteso come l’insieme degli uomini, quale realtà viva e dinamica che traduce tutta l’umanità del tempo e del mondo, sarà costretto a constatare la sua fine per dare luogo ad un uomo, a tanti uomini soli perché distanti, freddi perché lontani, privi di amore perché non toccati, non baciati, non abbracciati, non curati.

Da lontano posso vedere una forma, nell’avvicinamento posso distinguere l’uomo, nel contatto fisico posso riconoscere il fratello.

A pandemia esaurita, saremo chiamati presto a fare opera di resilienza.

E allora prepariamoci già fin da ora in noi stessi, resistiamo, facciamo memoria di quello che siamo, della nostra identità, del nostro desiderio di umanità. Proviamo a ricordare e immaginare la vita nel grembo, massima esperienza di contatto, di commistione umana, di vicinanza; e a riflettere seriamente che è proprio da quella esperienza di fusione, generata a sua volta da un’altra esperienza di contatto fisico, quello corporeo dell’atto sessuale, che vengono generate le basi per una nuova speranza, una speranza che rinasce ogni volta, la speranza della vita che, tenace, va avanti nonostante ogni pandemia, nonostante ogni tentativo di distacco e di disumanizzazione, nonostante ogni prova di lontananza.

E ci renderemo conto così che nella contemplazione e nella “fruizione” reciproca della nostra corporeità potremo conoscere la nostra stessa spiritualità, la verità che abita le profondità più inaccessibili del nostro essere. Riscopriremo il profumo dell’uomo attraverso un abbraccio, la consistenza eloquente della pelle attraverso un bacio o una carezza, la forza dello spirito in una stretta di mano, la possibilità della vita eterna nell’atto amoroso. Perché ogni contatto umano ci riporta puntualmente alla memoria della condizione più vera della nostra umanità, realtà complessa di forza e debolezza; perché ogni volta che ci tocchiamo, sperimentiamo automaticamente la potenza di quell’attesa sempre rinnovata di incontro e di condivisione delle nostre fragilità; perché ogni bacio, donato e ricevuto, rinnova la speranza del nostro cuore; perché una sola carezza ha la forza di lasciare, indelebile, quell’impronta che non potremo più dimenticare: l’impronta dell’amore, realtà potente e sempre possibile che genera e rinnova la vita.

Ritorneremo ad essere umani soltanto se riusciremo a recuperare quella nuova ma antica consapevolezza che anima la nostra stessa vita: che solo restando vicini possiamo sostenerci e vivere, che solo nella prossimità è nascosta la speranza.

Perché, in definitiva, è da un abbraccio profondo, intenso e stretto fra due esseri umani che ogni volta nasce e si perpetua la vita.

Nonostante tutto.

Palermo, 24 novembre 2020

Giovanni Farro

Dirigente medico

Hospice ARNAS Civico Palermo