Essere speranza nel tempo della tecnica.
Prospettive teorico-pratiche di orientamento

ANTONIO DI SOMMA

Dottorando di ricerca in Etica filosofica, Pontificia Università Lateranense, Roma; Laurea in Filosofia teoretica, Università degli Studi di Napoli Federico II; Perfezionamento in Bioetica, Istituto di Bioetica e Medical Humanities, Roma.

Pervenuto l’8 maggio 2020. Accettato l’11 maggio 2020.

Riassunto. Come si può essere speranza nel tempo della tecnica? Forse può essere utile interrogare brevemente a tale proposito il pensiero, o meglio approfondire alcune riflessioni presenti nell’elaborazione filosofica di importanti pensatori del Novecento. Attraverso tale procedimento si aprirà forse una prospettiva, un piccolo spiraglio, una via d’uscita tanto per il pensiero, quanto per la comprensione contemporanea della pratica quotidiana dell’aver-cura. Non deve stupire se si rimanda a classici del pensiero filosofico, ciò che muove ogni azione, soprattutto in ambito clinico e sanitario, non è forse una sempre personale visione del mondo, che ha scelto deliberatamente di aver-cura dell’altro opponendosi, per quanto possibile con tutti i mezzi della conoscenza e del cuore, ad un altrettanto diffusa visione dell’uomo che lo vede invece preda degli eventi e della caducità, al di là di ogni possibile e autentico intervento e soccorso dell’altro? Partendo dalle riflessioni circa le nozioni di “situazione-limite” e “aver-cura”, proposte rispettivamente da autori come Karl Jaspers e Martin Heidegger, è infatti possibile indicare una prospettiva teorico-pratica contemporanea circa il discorso sulla pratica di cura nel tempo della tecnica. Vedremo che i classici del pensiero del Novecento hanno ancora qualcosa da dirci, che una qualche comunicazione fra discipline differenti è ancora possibile; almeno ogni volta in cui, come nel caso della dimensione e rete di cure palliative e della presa in carico globale della persona sofferente, si avvicini l’uomo aperti alla sua realtà omnicomprensiva, soprattutto quando si parla di dolore e sofferenza, elementi comuni ad ogni uomo e ogni tempo.

Parole chiave. Cura, limite, tecnica, essere, speranza.

Being hope in the technological age. Theoretical-practical perspectives of orientation.

Summary. How can a person be hope in the age of technology? Perhaps it may be helpful to briefly question thought about it, or rather, to deepen some reflections present in the philosophical elaboration of important thinkers of the twentieth century. Through this procedure, a perspective will perhaps open, a small chink, a way out both for thought and for the contemporary understanding of the daily practice of caring. It should not be surprising if we refer to the classics of philosophical thought, what moves every action, especially in the clinical and healthcare fields, is perhaps not always a personal vision of the world, which has deliberately chosen to take care of the other, opposing, however much possible with all the means of our knowledge and our heart, to an equally widespread vision of man, who sees him instead prey to events and transience, beyond any possible and authentic intervention and help from the other? Starting from the reflections on the notions of “limit-situation” and “take-care”, proposed respectively by authors such as Karl Jaspers and Martin Heidegger, it is in fact possible to indicate a contemporary theoretical-practical perspective on the discourse on the practice of care in the technological age. We will see that the classics of twentieth century thought still have something to tell us, that some communication between different disciplines is still possible; at least every time that, as in the case of the palliative care dimension and the overall taking charge of the suffering person, the man is approached open to his all-embracing reality, especially when it comes to pain and suffering, elements common to every man and every age.

Key words. Care, limit, technology, being, hope.

Introduzione

Come si può essere speranza nel tempo della tecnica? Forse può essere utile interrogare brevemente a tale proposito il pensiero, o meglio approfondire alcune riflessioni presenti nell’elaborazione filosofica di importanti pensatori del Novecento. Attraverso tale procedimento si aprirà forse una prospettiva, un piccolo spiraglio, una via d’uscita tanto per il pensiero, quanto per la comprensione contemporanea della pratica quotidiana dell’aver cura. Non deve stupire se si rimanda a classici del pensiero filosofico, ciò che muove ogni azione, soprattutto in ambito clinico e sanitario, non è forse una sempre personale visione del mondo, che ha scelto deliberatamente di aver cura dell’altro opponendosi, per quanto possibile con tutti i mezzi della conoscenza e del cuore, ad un altrettanto diffusa visione dell’uomo che lo vede invece preda degli eventi e della caducità, al di là di ogni possibile e autentico intervento e soccorso dell’altro? Nonostante complesse divergenze nelle convinzioni personali di ciascuno si evidenzia infatti nella dimensione autentica dell’aver cura dell’altro una condizione riflessiva e allo stesso tempo risolutiva di sollecitudine verso l’altro, ovvero l’esigenza di una risposta attiva al dolore e alla sofferenza, un anelito naturale di predisposizione e di impegno dei propri mezzi e delle proprie risorse in vista del bene dell’altro da sé, la cui condizione implicitamente mi riguarda, mi condiziona e allo stesso tempo mi supera. «Ciò che l’uomo può essere per l’altro uomo – ha scritto infatti il filosofo e medico tedesco Karl Jaspers – non si esaurisce in forme a noi comprensibili»1. E proprio da Karl Jaspers e dalla sua nozione di “situazione-limite” (ted. Grenzsituation) intendo tracciare brevemente le linee prospettiche di questo percorso possibile all’interno della dimensione dell’aver cura, ovvero indicare la fattibilità di una rilettura contemporanea in chiave etico-clinica della nozione di situazione-limite elaborata dall’autore di Oldenburg, con una particolare attenzione alla dimensione e rete contemporanea di cure palliative (CP). Che cosa significa infatti sperare nella dimensione di cura, ed in particolar modo sperare oggi, in un tempo apparentemente dominato dalla tecnica e ancor più spesso da un egoismo incalzante e disumanizzante, aver speranza per sé e per gli altri nella quotidianità ma anche nelle situazioni-limite dell’esistenza e delle pratiche dell’aver cura? «Nel voler disporre – ha scritto infatti il filosofo tedesco Martin Heidegger rivolgendosi ad una platea costituita per lo più da medici, psicologi e personale sanitario – si avanza la pretesa di una certezza. Ciò che è calcolabile anticipatamente, ciò che è misurabile, è effettuale e solo questo lo è. In che misura si perviene con ciò ad affrontare un uomo malato?»2. Procedendo dunque attraverso la riflessione di Martin Heidegger circa la dimensione dell’aver-cura (ted. Fürsorge) è così possibile meglio definire le linee di questa prospettiva di orientamento, in modo da indicare una riflessione sulla pratica di cura nel tempo della tecnica, che tenga opportunamente conto della distinzione operata nei primi del novecento dal filosofo di Meßkirch tra i due modi fondamentali dell’esplicarsi della cura quale struttura ontologico-esistenziale del nostro esserci. Vedremo che i classici del pensiero del novecento hanno ancora qualcosa da dirci, che una qualche comunicazione fra discipline differenti è ancora possibile, almeno ogni volta in cui, come nel caso delle CP e della presa in carico globale della persona sofferente così come del suo nucleo familiare e affettivo, si avvicini l’uomo aperti alla sua realtà omnicomprensiva, soprattutto quando si parla di dolore e di sofferenza, elementi comuni ad ogni uomo e ad ogni tempo.

Verso una ricomprensione contemporanea della nozione di situazione-limite

La sofferenza, la morte, la criticità costituita dalla malattia, la vita umana nella sua imprendibilità e nella sua concretezza, gettano infatti luce e oscurità circa il peculiare modo di esistere dell’uomo nel mondo, aprono alle possibilità autentiche e originarie dell’esistenza umana e ne rivelano inderogabilmente limiti e compimenti. Tali eventi, che pongono l’essere personale dell’uomo dinnanzi ad un’evidente discontinuità dell’esperienza, ad una più o meno profonda e lacerante rottura, ad un conflitto fra istanze apparentemente opposte ma correlate, sono integrati ormai da tempo nella riflessione circa la pratica dell’aver cura, almeno così come essa è concepita e perseguita nell’ottica della multidisciplinare attenzione ai bisogni dell’ammalato espressa nella dimensione e rete di CP; pur necessitando di una costante analisi atta ad evidenziarne la rilevanza decisiva nell’ottica di una presa in carico globale della persona sofferente, dei suoi affetti, delle sue ansie, dei suoi dolori. Non si può escludere infatti, e spesso è proprio così, che le CP si trovino ad operare oggi nel bel mezzo di crisi antinomiche, sia esse familiari che piuttosto esistenziali e perfino spirituali. È noto a tale proposito il ruolo del cappellano all’interno dell’equipe multidisciplinare che assiste e potremmo dire affianca il malato nel tratto di strada più difficile, fosse anche solo per i suoi familiari, per quelli che lo amano e desiderano per lui tutto il bene possibile e disponibile. Un ruolo altrettanto significativo da questo punto di vista è inoltre ricoperto da tutti i componenti dell’equipe multidisciplinare, i quali concorrono integrandosi a vicenda nel far fronte alla realtà omnicomprensiva del dolore percepito e vissuto. «Nel fondo di ognuno dei casi seguenti: lotta, morte, caso, colpa – ha scritto infatti ormai cent’anni fa Karl Jaspers in una delle sue opere principali Psicologia delle visioni del mondo – è implicita una antinomia. Lotta e aiuto reciproco, vita e morte, caso e senso, colpa e coscienza della purificazione sono termini congiunti l’uno all’altro, di cui l’uno non esiste senza l’altro»3. La finitezza caratteristica dell’esistenza si esprime infatti nel limite che l’essere umano sperimenta da sempre particolarmente in tali complesse e decisive situazioni, nell’elemento comune e costitutivo della sofferenza e nell’incomprensibilità spesso ad esso correlata, nell’antinomia che il limite stesso manifesta, ovvero quella particolare tensione fra finito e infinito cui inevitabilmente l’uomo va incontro nel suo esperire e nei suoi vissuti. Vi sono infatti alcune situazioni decisive connaturate alla stessa natura umana in quanto tale e legate alla sua dimensione di finitezza, in cui si manifesta prepotentemente tale antinomicità dell’esistere: «Tali situazioni, che sono sempre sentite, sperimentate, pensate ai limiti della nostra esistenza, le denominiamo “situazioni-limite”»3. Proprio il mondo delle CP può oggi comprendere al meglio tali complessità, farsi portavoce in campo socio-sanitario di istanze esistenziali individuali apparentemente solo secondarie, lontane dal mondo della salute; ma che invece investono quest’ultimo nel profondo della sua stessa azione autentica di cura. Occorre infatti oggi nuovamente e con maggiore intensità porre tali complessità antinomiche dell’aver cura al centro dell’analisi clinica multidisciplinare, farle proprie in vista di una maggiore comprensione e predisposizione all’ascolto delle esigenze per una cura che sappia essere realmente autentica e globale, analizzarle mediante l’esperienza acquisita nel corso degli anni; ma soprattutto porle all’attenzione delle istituzioni che regolano i rapporti clinico sanitari in modo da indicare una questione urgente: la linea dell’aver cura dell’altro che talvolta si infrange sul muro delle complessità dello sviluppo tecnico-burocratico o che si perde nelle multiformi pieghe esistenziali del dolore contemporaneo, non sempre effettivamente comunicabile in un tempo della cura ancora troppo spesso impersonale e distante. A proposito della situazione medico-clinica contemporanea e del suo complesso rapporto con i multiformi sviluppi prodotti dalla tecnica in ambito sanitario, rilevava infatti lucidamente già lo stesso Karl Jaspers in Il medico nell’età della tecnica: «Il medico scorge oggi i limiti del proprio potere. Non può sopprimere la morte, anche se oggi è in grado di prolungare la vita come mai prima. Non può sopprimere le malattie mentali, anche se in certi casi può essere d’aiuto. Non può sopprimere la sofferenza, anche se oggi è in grado di lenirla in una misura che non ha precedenti. Nonostante tutti i successi, il medico avverte più ciò che non è in suo potere di ciò che lo è».1 Oggi, nel fronteggiare l’emergenza sanitaria causata dall’attuale pandemia di Covid-19/SARS-CoV-2, abbiamo sperimentato tali limiti in maniera eccezionale come individui, famiglie, comunità e popoli. Tuttavia lo stesso autore afferma ancora sapientemente a proposito dell’aver cura dell’altro da parte del medico che mai deve interrompersi o venir meno, nonostante la complessità della situazione: «La presenza di una personalità che per un attimo è qui, di sua volontà, solo per aiutare il malato non è solo infinitamente benefica. L’esserci di un uomo razionale, con la forza dello spirito e l’effetto persuasivo di un’essenza incondizionatamente buona, desta nell’altro, e così pure nel malato, le imprevedibili potenze della fiducia, del desiderio di vita, della veracità, senza che in merito si debba spendere una parola».1 Curare il corpo ma anche lo spirito dunque, per quanto possibile, è parte integrante della pratica autentica dell’aver cura, è un compito delicato e complesso, fatto di professionalità e slancio intuitivo, di comprensione e di opportuno silenzio, è il fondamento grazie al quale lo studioso di Oldenburg può coscientemente affermare come medico e come filosofo: «scetticismo, naturalismo, miscredenza sono gli intimi pericoli di fronte ai quali ogni medico si è trovato. Il modo in cui li ha superati, questo solo determina la profondità del suo sguardo umano, l’intensità della sua speranza, la passione per la quale, nonostante tutto, si può dire di lui che persino sulla tomba coltiva la speranza».1 Al fine di governare le molteplici situazioni di incertezza e risolvere le emergenze e le complessità che si presentano e ripresentano nelle questioni cliniche, solo apparentemente talvolta comparabili l’una all’altra, ma invece sempre nuove e differenti in quanto inerenti una vita ed un’identità personale unica e irripetibile, non basta infatti chiedere esclusivamente maggiore rigore alla diagnosi o alla cura, ma è innanzitutto necessario riscoprire il senso di un gesto autenticamente umano che è quello dell’aver cura, ovvero discernendo ogni particolare situazione riconosciuta “limite” attraverso un ponderato giudizio che abbia le sue fondamenta tanto nella comprensione della realtà clinica posta dinnanzi, quanto nella padronanza degli strumenti del diritto, dei doveri e delle responsabilità di ognuno, in un’autenticamente riprovata ed efficace etica della decisione, ma soprattutto, in un’umanità dimenticata che permea ogni viscera del nostro esserci. Ecco indicata solo brevemente la linea prospettica di un percorso circa possibilità e luoghi contemporanei dell’aver cura, ovvero la necessità di dialogare oggi autenticamente all’interno della dimensione di cura con la sussistenza di alcune particolari situazioni da ritenersi effettivamente limite nell’ottica della pluri-comprensione del nostro stesso essere alla vita e nell’esistenza4. La strada in parte è oggi già tracciata dallo sviluppo stesso delle CP e della riflessione munifica che ne proviene negli ultimi anni, doverosamente tuttavia sempre da approfondire ascoltando le voci di tutti, soprattutto di quanti offrono realmente la loro opera e riflessione quotidiana attorno alla comprensione e possibile risoluzione di tali problematiche all’interno delle equipe multidisciplinari operanti nel mondo delle CP, che poi è il nostro mondo, il mondo contemporaneo che ancora con speranza rifugge le tenebre e l’angoscia della caducità, che invita a gettare insieme lo sguardo oltre le difficoltà presenti nel nostro essere alla vita, quando queste sembrano lambire i luoghi delle nostre certezze e delle nostre sicurezze. La questione della complessità delle scelte producibili dall’uomo in tali situazioni-limite dell’esistenza, sia per quanto riguarda l’orizzonte personale di scelta del paziente che degli stessi operatori della salute, è infatti un nodo centrale della riflessione circa la pratica contemporanea dell’aver cura oggi quanto mai evidente. Proprio nello sviluppo di tale categoria concettuale devono concentrarsi i maggiori sforzi etico-teorici di comprensione e chiarificazione circa la pratica dell’aver cura, dei suoi molteplici limiti connaturali e delle sue possibilità di effettiva attuazione e compimento sul piano esistenziale. È infatti attraverso la dimensione personale e identitaria della nostra stessa esistenza che ci si distingue irrimediabilmente dagli altri e, allorché prevalgano situazioni di timore, conflitto e incertezza, si manifestano non solo la gettatezza esistenziale di ogni essere umano, ma anche l’ermeneutica personale delle sue scelte e, per quanto rilevabile, la stessa speranza quale fondamento originario e originante della dimensione di cura.

La speranza quale fondamento della dimensione originaria dell’aver-cura

Che cosa significa infatti sperare nella dimensione di cura, e in particolar modo sperare oggi, in un tempo apparentemente dominato dalla tecnica e ancor più spesso da un egoismo incalzante e disumanizzante, aver speranza per sé e per gli altri nella quotidianità ma anche nelle situazioni-limite dell’esistenza e delle pratiche dell’aver cura? Si tratta di un interrogativo sempre attuale, ma oggi ancor più impellente e necessario, accresciuto dal rapido sviluppo delle scienze della vita e della salute, e frutto di un domandare sulla speranza che è sita a fondamento della vita e dell’esistenza umana. Il discorso sulla speranza riguarda così oggi indirettamente anche le scienze della vita e della salute, che tuttavia manifestano sempre l’esigenza di una particolare autonomia epistemologica in grado di contenere le gravose questioni affrontate in concreto non solo al letto del paziente, ma anche nei luoghi della formazione, della cura e di un autentico progresso tecnologico, fatto di conoscenza scientifica e consapevolezza dei propri limiti, desiderio di compimento soggettivo e apertura autentica alla relazione interpersonale, in cui l’uomo non venga miseramente ridotto e interpretato come puro «fondo»5 manipolabile ed utilizzabile. «Nel voler disporre – ha scritto infatti il filosofo tedesco Martin Heidegger rivolgendosi ad una platea costituita per lo più da medici, psicologi e personale sanitario – si avanza la pretesa di una certezza. Ciò che è calcolabile anticipatamente, ciò che è misurabile, è effettuale e solo questo lo è. In che misura si perviene con ciò ad affrontare un uomo malato?»2. Ripartendo dunque dalla riflessione filosofica circa la dimensione dell’aver-cura è così possibile meglio definire la linea di questa prospettiva di orientamento, in modo da indicare una riflessione sulla pratica di cura nel tempo della tecnica che tenga opportunamente conto della valida distinzione operata nei primi del novecento dal filosofo di Meßkirch tra i due modi fondamentali dell’esplicarsi della cura quale struttura ontologico-esistenziale del nostro esserci; ovvero da una parte un prendersi-cura (ted. Besorgen) degli enti oggettivabili, delle cose che incontriamo ogni giorno nel mondo, e dall’altra il nostro aver-cura (ted. Fürsorge), indicante la modalità della cura attuata nei confronti degli altri, completamente differente dal precedente, poiché segno e testimonianza di una presenza che esiste, l’incontro con il con-esserci degli altri nel mondo, in cui ne va irrimediabilmente del nostro stesso esistere. Secondo l’autore ci si può prendere infatti cura dell’altro anche in maniera inautentica, sollevando l’altro dallo sforzo personale di cura, sostituendosi semplicemente a lui o intromettendosi al suo posto, limitandosi a procurare all’altro i beni di cui si ha necessità, risultando quest’ultimo in tal modo espulso dal suo compito nella dimensione di cura, retrocesso e sgravato nettamente del proprio dover assumere parte personale nella comune dimensione di cura. «Opposta a questa – scrive al contrario ancora Martin Heidegger – è la possibilità di aver cura, la quale, anziché intromettersi al posto degli altri, li presuppone nel loro poter essere esistentivo, non già per sottrarre loro la ‘cura’, ma per inserirli autenticamente in essa. Questa forma di aver cura, che riguarda essenzialmente la cura autentica, cioè l’esistenza dell’altro e non qualcosa di cui egli si prende cura, aiuta l’altro a divenire trasparente nella propria cura e libero per essa»6. La linea prospettica di questo breve percorso sulla possibilità della messa in evidenza della rilevanza della speranza nella dimensione di cura deve così confrontarsi con il pressante tema dell’angoscia percepita e latente, nel malato tanto quanto talvolta nel personale medico-sanitario, al di là di comportamenti e scelte eccellenti e ineccepibili sul piano tecnico-professionale. In Essere e tempo, l’opera fondamentale e maggiormente nota di Martin Heidegger, si è voluta ad esempio caratterizzare la speranza principalmente come una situazione emotiva in contrapposizione alla paura, rilevante non tanto per l’attesa costitutiva di un presunto bene futuro, ma piuttosto alla luce del senso esistenziale che lo stesso sperare infonde all’esistenza. Afferma infatti l’autore: «colui che spera si coinvolge, per così dire, nella speranza e va così incontro a ciò che spera. Ma ciò presuppone il raggiungimento di sé. Che la speranza, a differenza dell’ansietà deprimente, renda leggero, significa soltanto che anche questa situazione emotiva è riferita al “peso” nel modo dell’essere-stato. Una tonalità emotiva sollevata, o meglio sollevante, è ontologicamente possibile solo in un riferimento e-statico temporale dell’Esserci al fondamento gettato di sé».6 Tali interessanti riflessioni circa la speranza quale situazione emotiva manifestano tuttavia una non esaustiva problematizzazione della questione della speranza e della sua dimensione originaria e fondativa nel tempo dell’esistenza, del suo carattere di progettualità e comprensione della condizione di gettatezza nel mondo, del suo fondamentale ruolo nell’apertura trascendente dell’esistenza e nelle dinamiche relazionali umane nelle stesse pratiche di «disvelamento pro-ducente»5 di forme di assistenza autentiche. La forma e l’origine ontologica della speranza si palesano infatti nelle complesse situazioni indicate in precedenza in modo particolarissimo, così come del resto in ogni pratica quotidiana di cura realmente aperta al confronto autentico con sé stessi, con gli altri, con il mondo e la vita. È infatti opportuno richiamare a tal riguardo, seppur brevemente, tanto da un lato la pressante questione odierna dell’aver cura tra tecnica moderna e pro-duzione tecnologica, quando oggi anche l’essere umano viene spesso ad essere trattato come puro fondo disponibile, con la conseguente disumanizzazione dei rapporti sanitari, sociali, comunitari, esistenziali; quanto dall’altro la stessa particolare attenzione verso il tema oggi determinante della corporeità e del suo linguaggio, evidenziata anche dallo stesso autore tedesco in uno dei suoi ultimi lavori, comprendente protocolli seminariali, colloqui e lettere elaborati nel corso di circa un decennio, ovvero i cosiddetti Seminari di Zollikon, dal nome dell’omonima cittadina svizzera, testi in cui l’essere umano è pensato in quanto soggetto e partenza della medicina contemporanea nel tentativo di una possibile ricerca del senso autentico della disciplina e dei suoi fondamenti umani, nella prospettiva e nell’impegno di una rifondazione ontologica della stessa. L’essere dell’uomo nel mondo in quanto «essere-assieme»6 l’uno con l’altro è chiamato infatti oggi in causa senza sconti, ma la sfida che muove la persona, allorché la sua identità è criticamente esposta alle soglie dei suoi limiti e della sua stessa contingenza, è altrettanto manifesta e degna di essere approfondita. Solo la realtà di una perseguibile e autentica dimensione di cura, fortemente incoraggiata dallo sviluppo contemporaneo delle reti di CP e della costante riflessione multidisciplinare che aggiornandole, le muove e le smuove costantemente, può infatti favorire in tali situazioni di evidente e incontestabile criticità, la naturale apertura esistenziale dell’essere umano al mondo, agli altri, a sé e anche alla dimensione della trascendenza, che mai si esaurisce o corrompe. La dimensione originaria della cura apre infatti non solo alle possibilità autentiche dell’esistenza dell’esserci nel mondo proprie dell’uomo; ma anche, mediante il complesso confronto con le situazioni-emotive del timore e della speranza che si manifestano nell’atto di cura, sia esso agito che ricevuto, alla necessità istintiva della solidarietà, della relazione e della responsabilità nei confronti dell’altro. Attraverso l’identità, la presenza, il volto, la persona si dice e si rivela a sé e agli altri, e anche quando ogni atto espressivo è mancante la persona comunica e si comunica ancora al mondo e agli altri poiché partecipe vivente dell’esistenza. Il pensiero dell’altro è infatti esso stesso già relazione, già esistenza, in quanto fuori-uscita nel profondo dell’esserci umano verso l’altro da me, importante quanto me, esistente, sussistente, presente, vivo, che necessita di attenzione, comprensione, rispetto, tutela, cura adeguata, responsabile, autentica7. È infatti nell’ambito della relazione inter-personale, inscritta nella più generale dimensione autentica della cura, che può svilupparsi anche oggi, in un tempo apparentemente dominato dal tentativo di tecnologizzazione dei rapporti umani, un atteggiamento esistenziale di apertura al mondo, alla vita, agli altri e anche alla fede, nell’uomo che vive e che soffre, e che si concretizza nella percezione originaria della speranza del nostro essere, al di là del dramma umano correlato alla sofferenza e alla morte. La forma e l’origine ontologica della speranza si palesano infatti in tali situazioni-limite in modo particolarissimo. L’essere-per-la-morte può smuoversi verso un essere-alla-vita nonostante tutto, pieno di fiducia e concretezza, che sa e cerca di fronteggiare insieme-con-gli-altri ostacoli e complessità, poiché animato dalla speranza quale dimensione originaria del nostro stesso essere al mondo e suo fondamento estatico di risolutezza e movimento nella pratica autentica dell’aver cura dell’altro.

Conclusioni

Quanto brevemente solo accennato circa ruolo e rilevanza della speranza nelle situazioni-limite dell’aver cura, attraverso un personale confronto multidisciplinarmente orientato con alcuni classici del pensiero del Novecento, è attualmente invece percepibile con particolare evidenza nella dimensione e rete contemporanea di CP, nel nostro Paese così come ormai in gran parte del mondo, al di là di sempre auspicabili miglioramenti, oggi quanto mai necessari e possibili. Il confronto con il limite, interdisciplinarmente inteso, costituisce infatti la quotidianità di una pratica dell’aver cura che si vuole quanto più autentica e affidabile possibile, testimonianza di una presenza efficace e competente al fianco della persona bisognosa, ma a sua volta ancora capace di far muovere intorno a sé solidarietà e relazioni di comunità. L’interrogazione etica contemporanea, la libertà di un pensiero che non vuole interrompersi dinnanzi alle sfide più complesse emergenti nelle pratiche di cura, pur nei suoi limiti connaturali, il recupero della tradizione filosofica e parimenti una sua fruibile ricomprensione possono tuttavia oggi collaborare positivamente nel favorire l’interrogazione, comprensione e conseguente interiorizzazione di alcuni contenuti teorico-pratici che muovono da sempre la stessa pratica quotidiana dell’aver cura e la testimonianza di una presenza autentica di sollievo nelle situazioni-limite affrontate al fianco della persona sofferente e dei suoi affetti; così da ravvivare se possibile la stessa attenzione sociale e comunitaria nei confronti di un’urgente ri-umanizzazione dei percorsi di cura e assistenza. La dimensione della speranza che vive nel cuore di ogni uomo e di ogni donna costituisce infatti l’essenza del fondamento di cura, la possibilità stessa del suo compimento e il cuore della risposta attiva dell’essere umano al dolore, all’angoscia, alla sofferenza. Il fondamento originario dell’aver cura, la speranza di sollievo quale anelito insopprimibile e autentico del nostro esserci dinnanzi alla malattia e alla sofferenza, è infatti un’esigenza tanto pratica quanto teoretica, radicata nella mente e nel cuore di ognuno, nella contemplazione e nell’azione condivisa che ne consegue doverosa, istintiva e sollecita. Si tratta di una possibilità correlata al fondamento originario della dimensione di cura, della speranza che muove e che smuove ancora ogni uomo e che emerge inesauribile spesso proprio nelle condizioni patologiche più severe, il senso indefettibile di una richiesta di aiuto e di una risposta generosa e competente di soccorso8. Il limite della cura tuttavia resta e resiste in quanto inevitabilmente circoscritto dalla stessa dimensione umana e dalle caratteristiche invalicabili che la costituiscono e la fondano, dalla possibilità, liceità e integrità dell’agire medico-scientifico contemporaneo in situazioni di estrema criticità e conflitto, da un modello di istituzionalizzazione sanitaria talvolta freddo e lontano dalla realtà, da una ricerca positiva e convincente ma non ancora adeguatamente fruibile al di là delle situazioni economiche dei singoli enti, da una possibilità terapeutica di dominio sull’essere alla vita dell’uomo che si scontra con la concretezza della sua esistenza personale quale risorsa comunitaria inalienabile nonostante la criticità e la sofferenza stessa di ogni particolare situazione. Se la speranza si palesa infatti nella dimensione di cura come tensione e anelito trascendente di bene e parimenti come consapevolezza comunionale originaria dell’essere insieme l’uno con l’altro nel tempo della prova, restano tuttavia oggi da meglio identificare modalità percorribili dell’essere autenticamente speranza in campo medico-sanitario, alle prese con tali e complesse problematiche dell’aver cura, nei confronti delle quali il linguaggio e lo stesso progresso tecnologico appaiono purtroppo talvolta mancanti. Realizzare infatti un impegno di cura, accompagnamento e presa in carico globale fondato sulla possibilità di una comunicazione autentica della speranza quale possibile strumento e orizzonte di assistenza nella stessa relazione di cura, promuoverlo e riconoscerlo nei nostri giorni apparentemente dominati da un cieco ed eccessivo abuso tecnologico, così come da un progressivo e parallelo svilimento delle coscienze, è certamente una necessità espressione autentica di una pedagogia della speranza e alla speranza ancora da scoprire a fondo a livello comunitario e sociale, ma invece già ampiamente nota e comune a chi ha scelto e sceglierà di aver cura dell’altro con particolare impegno e apertura alla propria e altrui crescita professionale e umana9. Vedi a tale riguardo l’attuale, indispensabile e tempestiva risorsa costituita dal personale medico-sanitario palliativista specializzato nel tentativo di fronteggiare sentimenti di paura, confusione mentale e angoscia, emergenti nei pazienti affetti dalle forme più gravi o terminali di Covid-19/SARS-CoV-2. Nella riflessione sulla possibilità di una concreta messa in evidenza dinamica della rilevanza della speranza nel tempo della tecnica, non è possibile infatti oggi dissociarsi in alcun modo dalla dimensione dell’esperienza della pratica quotidiana e straordinaria dell’aver cura, dal confronto con le situazioni-limite costantemente affrontate, evidentemente in grado di istruire la teoria e da essa essere istruite. Scienza e coscienza nel tempo della tecnica, in un connubio quanto mai determinante, possono e sono chiamate oggi ad elaborare, chiarificare e produrre forme di assistenza e cura innovative e insperate solo pochi anni fa, senza per questo essere tuttavia costrette a dimenticare la rilevanza della dimensione comunionale, affettiva e trascendente insita nella stessa dimensione dell’aver cura dell’altro; così come il complesso rapporto emergente tra comunicazione della speranza e naturale desiderio di compimento personale nella prospettiva dell’orizzonte della scelta di ogni uomo10. Si tratta di una prospettiva possibile e attualmente fattivamente producibile nelle situazioni-limite dell’aver cura e dell’esistenza personale-comunitaria di ognuno, quando questa è messa a dura prova nel tempo della sofferenza e del dolore; della speranza di bene per sé e per gli altri e della ricerca teorico-pratica necessaria a promuovere tale bene in campo medico-sanitario; dell’attesa di compimento personale, familiare, comunitario e spirituale; di un’intesa relazionale dinamica e mai scontata, sempre ancora da favorire; della ricerca di modi e luoghi possibili dell’essere concretamente speranza nella pratica contemporanea dell’aver cura dell’altro. La domanda innata di speranza, nel tempo della tecnica così come in ogni tempo, al di là di ogni possibile e utile pro-duzione e talvolta pro-vocazione tecnologica, si configura così intuitivamente innanzitutto come una determinazione originaria dell’essere umano, del suo caratteristico essere al mondo insieme con altri, del suo anelito trascendente di compimento e di bene; molto più di un’attitudine positiva ad un bene futuro, essa si palesa come forza del presente, fondamento dell’attività di soccorso e cura dell’altro: la speranza quale fondamento originario e originante della dimensione ordinaria e straordinaria della cura.

Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interesse.

Bibliografia

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3. Jaspers K. Psicologia delle visioni del mondo. Roma: Astrolabio, 1950: 267, 299.

4. Jaspers K. Filosofia. II. Chiarificazione dell’esistenza. Milano, Mursia 2017: 142-227.

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8. Di Somma A. Speranza del fondamento e limite primo nella dimensione di cura. In: Atti del XXV Congresso Nazionale SICP: (16 novembre 2018), 2019: 140.

9. Di Somma A. Umanità di un diritto: riconoscimento e promozione dell’aver-cura nei giorni della tecnica. Rivista italiana di cure palliative 2019; 21: 121.

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